Nella definizione della base imponibile dell’imposta di registro da applicare alla cessione d’azienda, l’individuazione delle passività deducibili dev’essere ancorata alla nozione di passività inerenti; in questo contesto, da un lato, l’inerenza non è garantita dal solo dato contabile, ma, dall’altro, non è corretto ritenere che l’inerenza sussista solo per le passività riferibili a operazioni idonee a produrre reddito, “poiché la riferibilità si relaziona non ai ricavi in sé, ma all’oggetto dell’impresa”. Questo è uno dei principi enunciati dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 2802, depositata il 30 gennaio 2024, che consente di ripercorrere le regole per la definizione della base imponibile dell’imposta di registro con riferimento alla cessione d’azienda. La prima parte della decisione è dedicata alla definizione dei valori di avviamento. In primo luogo, la Corte ricorda che l’avviamento viene definito come la “qualità intrinseca immateriale dell’azienda, di formazione plurifattoriale [...] che di solito si concreta nel maggior valore che il complesso aziendale, unitariamente considerato, presenta rispetto alla somma dei valori di mercato dei beni che lo compongono); maggior valore, a sua volta correlato alla capacità di profitto di un’attività produttiva, ossia a quella «attitudine che consente ad un complesso aziendale di conseguire risultati economici diversi (ed, in ipotesi, maggiori) di quelli raggiungibili attraverso l’utilizzazione isolata dei singoli elementi che la compongono»”. Quindi, ricorda che esso viene spesso calcolato, dall’Amministrazione finanziaria, adottando il criterio forfetario di cui all’art. 2 comma 4 del DPR 31 luglio 1996 n. 460, previsto a suo tempo dalla normativa di accertamento con adesione, ma oggi abrogato. Sulla base di tale criterio, l’avviamento viene determinato “o sulla scorta degli elementi desunti dagli studi di settore o (in mancanza) applicando la percentuale di redditività (precisamente il rapporto tra Reddito d’impresa e Ricavi) dell’anno precedente la cessione, alla media dei ricavi realizzati nel triennio precedente e moltiplicando tale risultato per tre. Avviamento = Media Ricavi (3 anni prec) * Redditi/ Ricavi (ultimo anno) * tre (il moltiplicatore può essere pari a 2 nel caso l’esercizio dell’attività sia svolto in locali in affitto)”. Tanto premesso, la Corte afferma che, considerato che tale criterio era finalizzato originariamente all’accertamento con adesione, si può comprendere come esso fornisca “indicazioni minime”, ovvero “valori minimali d’avviamento” la cui applicazione integra “un indizio a favore dell’Amministrazione”. Quindi, posto che il moltiplicatore previsto dall’art. 2 comma 4 del DPR 460/1996 deve considerarsi un parametro minimo, ove l’Amministrazione finanziaria ne adotti uno inferiore, risulta irrilevante il fatto che l’Agenzia non abbia allegato il database da cui ha tratto il riferimento al coefficiente applicato. Invece, spetta al contribuente dimostrare che quel coefficiente (inferiore a quello di legge) non potesse essere applicato all’azienda ceduta e per quali ragioni. Il secondo profilo esaminato dalla Cassazione riguarda, invece, la deducibilità delle passività aziendali dalla base imponibile dell’azienda ceduta. La sentenza in commento fornisce un interessante excursus della giurisprudenza sul tema, che cerca di attribuire coerenza alle varie pronunce emesse dalla giurisprudenza di legittimità sul tema. Il punto di partenza è che il valore dell’azienda va determinato in base alla somma di “attività” (costituite dai valori dei beni materiali e dei beni immateriali compreso l’avviamento), sottraendo le passività “risultanti dalle scritture contabili obbligatorie o da atti aventi data certa” (art. 51 comma 4 del DPR 131/86). Al fine dell’individuazione delle passività deducibili dalla base imponibile – spiega la Corte – è però essenziale distinguere quelle inerenti da quelle non inerenti: le prime sono deducibili, mentre le seconde, di cui sia accertata l’estraneità all’azienda, non sono deducibili, in quanto rappresentano un modo per corrispondere il prezzo, ovvero un accollo di debiti estranei che, quindi, confluisce nella base imponibile dell’imposta di registro sulla cessione d’azienda, come previso dall’art. 43 comma 2 del DPR 131/86 (cfr. Cass. nn. 10218/2016 e 539/2022). Nell’individuazione delle passività inerenti non si può guardare al solo dato contabile: “l’inerenza delle passività” va differenziata dalla mera registrazione contabile. Infatti, “la passività non inerisce sempre e comunque all’azienda sol perché risultante dai libri obbligatori”. Nel caso di specie, l’Agenzia delle Entrate si è però contraddetta, negando la deducibilità del debito verso le banche lamentandone la non inerenza, mentre ne affermava la correlazione con l’attività aziendale. Inoltre, non è corretto ritenere che l’inerenza sia esclusa in presenza di “asimmetria numerica tra poste dell’attivo e la posta del passivo”, in quanto questa “apparente disarmonia” non esclude l’inerenza dei debiti che, invece, potrebbe essere sostenuta provando che le perdite erano state originate da investimenti estranei all’attività imprenditoriale della società o che non avessero alcuna correlazione con l’attività aziendale.