È penalmente responsabile chiunque non versi, entro il termine per il versamento dell’acconto relativo al periodo d’imposta successivo, l’imposta sul valore aggiunto dovuta in base alla dichiarazione annuale, per un ammontare superiore a 250.000 euro per ciascun periodo d’imposta. Si tratta del delitto di omesso versamento dell’IVA previsto all’art. 10-ter del DLgs. 74/2000: un reato omissivo e istantaneo e che si consuma nel momento in cui scade il termine previsto dalla legge per il versamento dell’acconto relativo al periodo di imposta successivo. Ciò che rileva è, quindi, l’indicazione nella dichiarazione di un debito d’imposta e l’inadempimento alla conseguente e corrispondente obbligazione di pagamento, fermo restando che, ai fini della sua configurabilità, l’entità della somma da versare, costituente il debito IVA, deve essere quella risultante dalla dichiarazione del contribuente e non quella effettiva, desumibile dalle annotazioni contabili (così Cass. n. 14595/2017). Secondo il costante orientamento della giurisprudenza, la prova del dolo è insita nella presentazione della dichiarazione annuale, dalla quale emerge quanto è dovuto a titolo di imposta, e che deve, quindi, essere saldato o almeno contenuto non oltre la soglia, entro il termine lungo previsto. Con riguardo, all’elemento soggettivo del reato, la sentenza n. 15942, depositata il 17 aprile 2024 dalla Cassazione, ribadisce che è sufficiente il dolo generico integrato dalla condotta omissiva posta in essere nella consapevolezza della sua illiceità, a nulla rilevando i motivi della scelta dell’agente di non versare il tributo (Cass. n. 3098/2015 e Cass. n. 8352/2014). Quanto ai profili di esclusione della colpevolezza, viene confermato che l’inadempimento della obbligazione tributaria può essere attribuito a forza maggiore solo quando derivi da fatti non imputabili all’imprenditore che non abbia potuto tempestivamente porvi rimedio per cause indipendenti dalla sua volontà e che sfuggono al suo dominio finalistico (cfr. Cass. n. 8352/2015). Mentre la rilevanza della crisi di liquidità del debitore ai fini dell’esclusione della colpevolezza è limitata ai casi di crisi di liquidità non imputabile al debitore e con la dimostrazione che siano state adottate tutte le iniziative per provvedere alla corresponsione del tributo (Cass. n. 23796/2019), anche attingendo al patrimonio personale (Cass. n. 43599/2015). Né la mancata riscossione di crediti costituisce circostanza idonea a escludere il dolo, posto che si tratta di eventi che rientrano nel normale rischio di impresa; sempre che tali insoluti siano contenuti entro una percentuale da ritenersi fisiologica (cfr. Cass. n. 31352/2021). Nel procedimento oggetto della sentenza oggi in commento, ad avviso della difesa, la scelta di non adempiere al debito d’imposta non sempre può dirsi libera. Nel caso di specie si sarebbe trattato di una scelta sì consapevole ma obbligata, in quanto i pagamenti effettuati dall’imprenditore (nei confronti dei fornitori, dei dipendenti, dell’INPS e dell’INAIL) erano necessari per la prosecuzione dell’attività d’impresa. Tuttavia, viene ancora una volta ripetuto dai giudici di legittimità quell’orientamento rigoroso per cui il debito verso il fisco relativo ai versamenti IVA è normalmente collegato al compimento delle operazioni imponibili dal momento che, ogni qualvolta il soggetto d’imposta effettua tali operazioni, riscuote già dall’acquirente del bene o del servizio l’IVA dovuta e, deve, quindi, tenerla accantonata per l’Erario, organizzando le risorse disponibili in modo da poter adempiere l’obbligazione tributaria (cfr. Cass. SS.UU. n. 37424/2013).