Gli utili realizzati a seguito della liquidazione volontaria di una srl rappresentano frutti civili e, come tali, sono di competenza dell’usufruttuario, il quale è tenuto ad assolvere su di essi le relative imposte e a instaurare i rapporti con l’Amministrazione finanziaria per istruire eventuali domande di rimborso. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 11170 depositata il 26 aprile 2024, la quale ha confermato il giudizio di merito che aveva respinto le argomentazioni del nudo proprietario, secondo cui il residuo attivo risultante dalla liquidazione avrebbe dovuto spettare al nudo proprietario in quanto socio. Si tratta di un principio che, a quanto consta, non trova precedenti a livello di giurisprudenza di legittimità (neanche sotto il profilo strettamente societario) e che impone attente valutazioni all’atto della costituzione del diritto, anche nell’ottica di una corretta valorizzazione dello stesso. Le argomentazioni della Suprema Corte sono di due ordini, il primo volto a stabilire quando cessa il diritto di usufrutto sulla partecipazione e il secondo legato alle conseguenze del fatto sugli obblighi tributari delle parti coinvolte. In merito alla prima questione, si evidenzia che l’art. 2352 del codice civile – cui rimanda in toto l’art. 2471-bis relativo alle srl – richiama una serie di disposizioni che riguardano l’usufruttuario in tema di diritto di opzione, di aumento gratuito, e così via, al di fuori delle quali occorrerebbe però rifarsi ai principi generali in tema di usufrutto. In altre parole, dato atto che né la ripartizione dei diritti patrimoniali tra socio e usufruttuario in sede di scioglimento della società, né il momento di cessazione dell’usufrutto, sono oggetto di regolamentazione da parte dell’art. 2352 del codice civile, la relativa disciplina si deve rinvenire nella norma “madre” di cui all’art. 1014, secondo cui l’usufrutto cessa per il totale perimento della cosa su cui è costituito (e ciò anche se l’usufrutto è costituito per l’intera vita del beneficiario). Posto che, per la partecipazione, il perimento della cosa è rappresentato dal “venir meno della partecipazione sociale nella sua consistenza giuridica” (così si esprime la sentenza n. 11170/2024), tale momento non è individuato né nella messa in liquidazione, né nella conclusione delle operazioni di liquidazione per effetto delle quali viene attribuito il residuo attivo, bensì nel momento – successivo – in cui la società viene cancellata dal Registro delle imprese. Conseguenza del ragionamento è quella per cui, sino alla cancellazione, la quale determina l’estinzione della società, non vi è alcun perimento della cosa e il diritto di usufrutto rimane pertanto in essere. Da questo ragionamento discende la seconda parte della sentenza, riferita agli obblighi fiscali delle parti. Ad avviso dei giudici di legittimità, infatti, nessuna norma limita l’estensione oggettiva dei diritti dell’usufruttuario ai dividendi “propriamente detti”, deliberati dall’assemblea durante la vita della società: tali diritti, al contrario, si estendono alle somme o ai beni che l’usufruttuario riceve in sede di liquidazione, i quali hanno anch’essi natura di frutti civili. Sotto questo profilo, è stata sconfessata la linea interpretativa proposta dal nudo proprietario, per cui i plusvalori emersi in sede di liquidazione non rappresenterebbero frutti civili, ma incrementi spettanti al nudo proprietario stesso. Queste considerazioni si estendono al profilo tributario. La norma contenuta nell’art. 47 comma 7 del TUIR, nel quantificare il reddito da liquidazione in misura pari alla differenza positiva tra le somme percepite (o il valore normale dei beni assegnati) e il prezzo pagato per l’acquisizione della partecipazione, menziona la figura dei “soci”. Ciò nonostante, posto che le somme o i beni vengono attribuiti a titolo di liquidazione della quota in un momento antecedente a quello della cancellazione della società e rappresentano, come detto, frutti civili, essi vanno imputati all’usufruttuario, il quale riveste questo status sino alla cancellazione. All’usufruttuario della quota sociale compete, di conseguenza, l’onere fiscale legato all’utile di liquidazione, posto che l’art. 1008 del codice civile fa obbligo a tale soggetto di assolvere le imposte che gravano sul reddito. Secondo la Cassazione, infatti, l’utile di liquidazione è a tutti gli effetti un reddito, con la conseguenza che il rapporto d’imposta avente ad oggetto tale utile sorge tra l’Amministrazione finanziaria e l’usufruttuario.