La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 12142 depositata il 6 maggio 2024, è tornata a pronunciarsi sulle condizioni che necessariamente devono sussistere per ritenere legittimo il licenziamento disciplinare del dipendente che abbia utilizzato strumenti informatici per diffondere critiche offensive verso il datore di lavoro. IL FATTO Nel caso di specie, in particolare, il dipendente era stato licenziato per giusta causa per aver pubblicato un post particolarmente offensivo nei confronti del datore di lavoro sul proprio profilo Facebook. La Corte d’Appello aveva ritenuto legittimo il licenziamento, in quanto nel post diffuso tramite Facebook erano state attribuite al datore di lavoro e ai vertici aziendali comportamenti chiaramente disonorevoli e infamanti, tanto che il post era stato ritenuto idoneo a qualificare in modo offensivo e dispregiativo l’azienda e a ledere l’immagine dell’azienda stessa. Il tema non può dirsi nuovo, dato che la giurisprudenza di legittimità, decidendo casi analoghi, ha già avuto modo di affermare alcuni principi fondamentali in materia, secondo i quali la critica del lavoratore – il cui esercizio rappresenta un diritto costituzionalmente protetto e che deve ritenersi legittima se effettuata nel rispetto di determinati limiti – può costituire una condotta diffamatoria nel caso in cui abbia un contenuto lesivo dell’onore e della reputazione del datore di lavoro e venga divulgata nell’ambiente sociale. Ciò quindi non avviene nel caso in cui il lavoratore esprima tramite social media mere opinioni personali, prive di contenuto diffamatorio (in tal senso la sentenza della Corte d’Appello di Brescia n. 281/2022). LA DECISIONE DELLA CORTE DI CASSAZIONE In particolare, riprendendo quanto già affermato con la sentenza n. 10280/2018, i giudici di legittimità hanno evidenziato come vengano integrati gli estremi della diffamazione e il comportamento sia disciplinarmente rilevante quando l’esercizio del diritto di critica si realizzi attraverso la diffusione di messaggi offensivi o diffamatori con strumenti informatici potenzialmente idonei a raggiungere un numero indeterminato di persone, come, appunto, la bacheca di Facebook. In tal caso, infatti, la diffusione su Facebook del commento ingiurioso è idonea a determinare la circolazione del messaggio tra un gruppo indeterminato di persone, con conseguente lesione irreparabile del vincolo fiduciario con il datore di lavoro. In tal senso anche la sentenza del 26 maggio 2023 n. 14836, secondo cui il messaggio offensivo, una volta divulgato tramite Facebook, e quindi sul web, sfugge al controllo del suo autore “per essere veicolato e rimbalzato verso un pubblico indeterminato, tanto che l’immissione di un «post» di contenuto denigratorio è stato ritenuto più volte idoneo ad integrare gli estremi della diffamazione”. La Suprema Corte rileva, per contro, che costituisce una situazione completamente diversa quella che deriva dalla diffusione di una critica nei confronti del datore di lavoro attraverso strumenti informatici ad accesso limitato, come una chat privata o chiusa. In tal caso, la critica espressa dal dipendente si inserisce nel contesto di una conversazione privata nell’ambito di un gruppo ristretto di persone, cosicché, mancando l’interesse alla divulgazione, gli estremi della diffamazione non sono integrabili e il comportamento del lavoratore deve ritenersi disciplinarmente non rilevante e, anzi, tutelabile sotto il profilo della libertà e della segretezza delle comunicazioni (cfr. Cass. 10 settembre 2018 n. 21965, sul caso di una conversazione tra gli iscritti a un sindacato dagli stessi intesa e voluta come privata e riservata).