In caso di contestazione di fatture soggettivamente inesistenti l’onere della prova è a carico dell’Ufficio, il quale, anche tramite presunzioni, deve dimostrare che il soggetto formale che emette le fatture non sia quello reale nonché la consapevolezza della frode da parte del contribuente. A quel punto l’interessato deve fornire la prova contraria, costituita dalla sussistenza della propria buona fede, circostanza che rende legittima la detrazione IVA. Questi i principi enunciati dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 20587 del 31 luglio 2019, nella quale vengono indicate alcune circostanze sintomatiche della possibile inesistenza delle operazioni, nonché le cautele che può adottare preventivamente il contribuente per poi attestare la propria estraneità al meccanismo fraudolento. IL FATTO L’Ufficio notificava ad una Spa un avviso di accertamento contestando, tra l’altro, l’indebita detrazione IVA a seguito di fatture ritenute soggettivamente inesistenti (relative alla compravendita di autovetture). Mentre la CTP annullava tale contestazione, la CTR la confermava ritenendo che la Spa fosse consapevole o quantomeno avesse la possibilità di conoscere l’esistenza della frode IVA posta in essere. In sintesi, la contribuente era di fatto l’unica cliente dell’impresa ritenuta cartiera, in favore della quale aveva rilasciato anche fideiussione bancaria per un importo molto rilevante: appariva dunque non credibile che la Spa non avesse richiesto preventivamente informazioni sulla beneficiaria di detta fideiussione prima di concederla. La contribuente ricorreva in cassazione evidenziando sostanzialmente l’assenza di consapevolezza nella partecipazione ad una frode carosello. LA DECISIONE DELLA CORTE DI CASSAZIONE La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso. I giudici ricordano che in caso di operazioni soggettivamente inesistenti l’Ufficio deve provare da un lato che il soggetto formalmente emittente non corrisponda a quello effettivo, dall’altro che il cessionario sapeva o avrebbe dovuto sapere che l’operazione si inseriva in un’evasione Iva, senza necessità di dimostrare la consapevole partecipazione alla frode. Quanto al primo elemento l’Amministrazione può utilizzare anche presunzioni, offrendo elementi indiziari. In relazione all’elemento psicologico, invece, l’Ufficio, sempre anche tramite presunzioni, deve dimostrare la consapevolezza del soggetto verificato, mediante l’uso dell’ordinaria diligenza, che il proprio cedente fosse solo formalmente esistente e stesse agendo al fine di evadere le imposte. A tal fine occorre individuare specifici elementi obiettivi. E’ necessario così verificare caso per caso quali siano le condizioni concrete delle operazioni contestate, ma in linea generale costituiscono elementi sintomatici dell’operazione fittizia: l’acquisto dei beni ad un prezzo inferiore a quello di mercato, la limitatezza dell’eventuale ricarico, la presenza di una varietà e pluralità di soggetti promiscuamente indicati nella documentazione di trasporto nella fatturazione, la scelta di operare secondo canali paralleli di mercato, la tempistica dei pagamenti, la qualità del concreto intermediario con il quale sono stati intrattenuti i rapporti commerciali, il numero, qualità e durata delle transazioni, il fatto che il contribuente abbia rapporti commerciali con una pluralità di soggetti qualificati come cartiere. Spetta poi al contribuente fornire prova contraria, che può consistere, oltre che nella contestazione degli elementi indicati dall’Amministrazione, anche nella dimostrazione dell’attività conoscitiva posta in essere prima dell’avvio dei rapporti commerciali, il cui esito rassicurava in ordine all’effettività ed operatività della controparte. Resta invece irrilevante la regolarità formale delle scritture contabili e le attestazioni dei pagamenti effettuati. Nella specie la CTR si era attenuta ai principi di ripartizione dell’onere probatorio indicati, ritenendo fondata la ricostruzione dell’Ufficio.