Il reato di dichiarazione infedele, previsto dall’art. 4 del DLgs. 74/2000, è realizzato da chi indica in una delle dichiarazioni annuali elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo o elementi passivi inesistenti con il fine specifico di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto. Il legislatore pone un ulteriore limite alla rilevanza penale della condotta richiedendo che, congiuntamente, l’imposta evasa sia superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, a 100.000 euro e l’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi inesistenti, sia superiore al 10% dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o, comunque, sia superiore a due milioni di euro. Nel caso portato all’attenzione della sentenza n. 17708, depositata il 6 maggio 2024 dalla Corte di Cassazione, il legale rappresentante di una società aveva indicato elementi attivi, relativi a cessioni per l’esportazione di beni effettuate nei confronti di soggetti non residenti nell’Unione europea, per l’ammontare di 973.480 euro. Dagli accertamenti effettuati dall’Agenzia delle Entrate e dalla polizia tributaria, emergeva che tali operazioni, contabilizzate come non imponibili ai fini IVA, erano in realtà costituite da cessioni a soggetti nazionali appartenenti all’unione europea, quindi soggette a IVA. Emergeva inoltre, a seguito dell’acquisizione delle fatture che erano state contabilizzate erroneamente, che l’importo delle fatture per cessioni soggette a IVA fosse sostanzialmente pari a quello indicato nella dichiarazione nella riga VE 30, relativo a cessioni non soggette all’IVA, ossia pari a 973.418 euro. Viene in proposito confermata la sussistenza dell’elemento soggettivo richiesto dall’art. 4 del DLgs. 74/2000 desumendolo dall’utilizzo irrituale di tali documenti per svariati anni anche nelle dichiarazioni IVA relative a periodi di imposta diverse, escludendo così che l’errore di imputazione delle fatture denotasse l’involontarietà del fatto, considerato inoltre che tale indicazione erronea ha comportato un rilevante vantaggio per la società. Infatti, qualora l’inesatta compilazione della dichiarazione fosse stata davvero imputabile a un errore inconsapevole, tale errore sarebbe stato immediatamente percepibile ed emendabile da parte del ricorrente all’atto della contabilizzazione e della registrazione nei registri IVA delle fatture, in quanto dalla contabilità sarebbe derivato un debito per l’Erario in misura pari all’IVA incassata. Per quanto riguarda l’invocata causa di non punibilità per tenuità del fatto, così come prevista dall’art. 131-bis c.p., i giudici hanno effettuato una valutazione negativa, facendo riferimento alle modalità della condotta e all’entità dell’imposta evasa, in quanto di gran lunga superiore alla soglia di rilevanza penale, ammontando a più di 170.000 euro e dunque superando la soglia prevista dall’art. 4 del DLgs. 74/2000 di circa il 12%. Riguardo alla materia penal-tributaria, la giurisprudenza ha già avuto modo di precisare che la causa di non punibilità è applicabile laddove la omissione abbia riguardato un ammontare vicinissimo alla soglia di punibilità, in ragione del fatto che il grado di offensività che fonda il reato è stato valutato dal legislatore nella determinazione della soglia di rilevanza penale (tra le altre, Cass. n. 16599/2020). Né può incidere, nel caso di specie, il comportamento successivo tenuto dal contribuente. Da un lato, infatti, ai fini dell’applicazione della causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto, acquista rilievo, per effetto delle modifiche introdotte dal DLgs. 150/2022, anche la condotta dell’imputato successiva alla commissione del reato. D’altra parte, però, tale parametro non può di per sé solo, rendere di particolare tenuità un’offesa che tale non era al momento del fatto, potendo essere valorizzato solo nell’ambito del giudizio complessivo sull’entità dell’offesa recata, da effettuarsi alla stregua dei parametri di cui all’art. 133 comma 1 c.p. (così Cass. n. 18029/2023). Nel procedimento in esame, peraltro, il successivo versamento del debito tributario è stato comunque tenuto in debito conto, anche se ai diversi fini dell’applicazione della circostanza attenuante di cui all’art. 13-bis del DLgs. 74/2000 e dell’esclusione della confisca.