Scatta la bancarotta anche per il commercialista quando il bilancio falso consente alle società di ottenere liquidità dalle banche prima di fallire. Si configurano sia l'ipotesi impropria da reato societario sia quella societaria per effetto di operazioni dolose. E ciò perché il dolo nel concorso dell'extraneus nel delitto proprio dell'amministratore sta nella consapevolezza di fornire un apporto che depaupera il patrimonio della società. È proprio il professionista a segnalare all'amministratore di fatto società a rischio default da spogliare e far fallire dopo aver ottenuto credito grazie ai conti taroccati. E non conta che a condurre le imprese al fallimento siano le fatture false e non i bilanci truccati. Lo ha chiarito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 16962 del 4 giugno 2020. La condotta di partecipazione dell'imputato si sarebbe sostanziata nell'aver presentato, in qualità di ragioniere contabile, titolari di società in stato di pre-decozione al coimputato, amministratore di fatto, il quale le avrebbe acquisite e, successivamente, spogliate del loro patrimonio, una volta ottenuti finanziamenti da istituti di credito, peraltro attraverso la produzione di bilanci falsi, predisposti e registrati dal medesimo professionista e dal coimputato. La Cassazione ricorda che il dolo del concorrente extraneus nel reato proprio dell'amministratore consiste nella volontarietà della propria condotta di apporto a quella dell'intraneus, con la consapevolezza che essa determini un depauperamento del patrimonio sociale, ai danni dei creditori, mentre non è richiesta la specifica conoscenza del dissesto della società. Qualora l'impresa depauperata dalla distrazione versi in stato di decozione, la consapevolezza di tale stato costituisca un indice inequivocabile del dolo del concorrente che a tale distrazione abbia prestato il proprio contributo, giacché tale consapevolezza contiene inevitabilmente (e senza necessità di prova ulteriore) la rappresentazione della pericolosità della condotta per gli interessi dei creditori. Ciò peraltro non significa che, in situazioni in cui il dissesto o anche il solo disequilibrio economico dell'impresa non si sia ancora palesato, le circostanze del fatto cui il soggetto concorre non possano rivelarne la natura effettivamente distrattiva. In tema, poi, di bancarotta impropria, il dolo richiede una volontà protesa al dissesto, da intendersi non già quale intenzionalità di insolvenza, bensì quale consapevole rappresentazione della probabile diminuzione della garanzia dei creditori e del connesso squilibrio economico.