Con l’ordinanza n. 4099 del 14 febbraio 2024, la Corte di Cassazione ha ribadito il consolidato principio secondo cui la pretesa impositiva avanzata dall’Agenzia delle Dogane può fondarsi su un report OLAF soltanto nel caso in cui lo stesso non si limiti ad asserzioni generiche in ordine all’attività svolta dalle società esportatrici, ma contenga specifici elementi di prova. IL FATTO Il caso sottoposto all’attenzione dei giudici riguardava il disconoscimento dell’origine indiana di prodotti siderurgici importati, a seguito di un’indagine svolta dall’Organismo europeo di lotta antifrode (OLAF), che ha ritenuto il materiale utilizzato, di origine cinese, non sufficientemente lavorato in India. Sulla base di tali indicazioni, senza ulteriori indagini, l’Agenzia delle Dogane ha affermato l’origine cinese dei prodotti importati, conseguentemente applicando il dazio antidumping nella gravosa misura del 71%. LA DECISIONE DELLA CORTE DI CASSAZIONE La Suprema Corte, come già i giudici di merito, ha dichiarato illegittima la rettifica operata dalla Dogana, giacché dal report OLAF invocato dall’Ufficio a sostegno della pretesa impositiva non si evincerebbe in nessun modo “la minuziosa attività di raccolta dati e informazioni, di analisi e comparazione degli stessi (...), la approfondita disamina dei processi di lavorazione e dei materiali oggetto di indagine, nonché́ la composizione chimica, i gradi di specifica comparazione, misure e percentuali di tolleranza dei quali l’Agenzia fa cenno nel suo atto”. Conseguentemente, “pur dovendosi riconoscere ai report OLAF una particolare attendibilità, derivante dalla funzione svolta, dal carattere pubblicistico della stessa, dalla specifica competenza nella materia verificata etc., è certo che le affermazioni contenute in tali atti debbono essere suffragate da elementi di prova specifici e non limitarsi alla mera asserzione dell’esistenza di un fatto, rinviando a informazioni e documenti non specificati e non allegati. Diversamente argomentando, si estenderebbe il carattere fidefaciente del quale sopra si è detto ben al di là dei limiti di cui all’art. 2700 c.c. e si attribuirebbe il valore di fonte di prova ad asserzioni non verificate e non verificabili”. La fede privilegiata, ai sensi dell’art. 2700 c.c., infatti, attiene unicamente ai fatti attestati dal pubblico ufficiale come da lui compiuti o avvenuti in sua presenza o che abbia potuto conoscere senza alcun margine di apprezzamento o di percezione sensoriale, nonché quanto alla provenienza del documento dallo stesso pubblico ufficiale e alle dichiarazioni a lui rese, ma non si estende alla veridicità sostanziale di documenti esaminati dai pubblici ufficiali. Laddove, pertanto, il report OLAF si limiti a menzionare (come nel caso in oggetto) indagini di carattere statistico, dichiarazioni rese o valutazioni effettuate da terzi, tale report non può considerarsi, da solo, idoneo a sostenere la pretesa impositiva della Dogana. A tal fine, il report avrebbe dovuto individuare con precisione le fonti di prova dalle quali emergerebbe che le lavorazioni svolte in India non sarebbero state significative, indicando i processi di lavorazione e le analisi comparative che consentirebbero di addivenire a questa conclusione. Dovrebbero essere evidenziati, inoltre, gli elementi di prova necessari per garantire la certezza della provenienza cinese della merce, quali il tracking del percorso seguito dai container. L’ordinanza si pone perfettamente in linea con le numerose pronunce di legittimità che, in materia di disconoscimento dei certificati di origine preferenziale Form A, hanno chiarito come le informative OLAF, qualora contengano solo una descrizione generale della situazione relativa al rilascio dei certificati di origine preferenziale, non siano idonee, da sole, a provare che il rilascio del documento inesatto è imputabile all’esportatore, dovendo contenere accertamenti direttamente riferibili alle merci importate (Cass. nn. 8337/2020 e 5930/2019; conformi, Cass. nn. 7993/2019 e 7994/2019). Qualora tali accertamenti manchino, spetta alle autorità doganali dello Stato di importazione fornire ulteriori prove in ordine al comportamento dell’esportatore, al fine di disconoscere l’origine preferenziale di un prodotto (in tal senso, Corte di Giustizia Ue 16 marzo 2017, causa C-47/16).