Il ricorso di una dipendente del ministero della Giustizia, che dal 2001 al 2005 aveva prestato servizio per cinque volte alla settimana sulla base di un orario giornaliero dalle 8 alle 15, 12, offre alla Corte di Cassazione la possibilità di ribadire il principio secondo cui la fruizione dei buoni pasto ha natura assistenziale e non retributiva ed è strettamente legata alla fruizione di una pausa al termine delle prima sei ore di lavoro. Con l'ordinanza n. 22985 del 21 ottobre 2020, i giudici tornano dunque su un tema molto discusso. IL FATTO Nel caso analizzato dai giudici di legittimità la dipendente ministeriale aveva rinunciato, con il consenso dell'Amministrazione, alla pausa pranzo e non avendo percepito in tale periodo i buoni pasto aveva chiesto in giudizio il pagamento del loro controvalore pecuniario e il risarcimento del danno subito: richieste respinte in primo e secondo grado dal Tribunale e della Corte d'appello di Roma. LA DECISIONE DELLA CORTE DI CASSAZIONE Sposando la tesi dei giudici di merito, la Cassazione ha ricordato che per la sua natura assistenziale il diritto ai buoni pasto dipende strettamente dalle previsioni delle norme o della contrattazione collettiva che ne consentono il riconoscimento; in particolare, qualora di regola esso sia riconnesso a una pausa destinata al pasto, il sorgere del diritto dipende dal fatto che essa venga effettuata. Una previsione, quest'ultima, contenuta anche nell'articolo 4 del contratto collettivo di riferimento. In questo contesto l'effettuazione della pausa pranzo, a cui la lavoratrice aveva rinunciato per poter terminare anticipatamente la prestazione di lavoro, «non integra gli estremi a cui la disciplina collettiva subordina il diritto alla prestazione».