Il mancato utilizzo di presidi protettivi da parte del dipendente consente di rinvenire il nesso causale con la malattia anche in presenza di una patologia multifattoriale. La Corte di Cassazione, ordinanza n. 32486 del 12 dicembre 2019, ha così accolto, con rinvio, il ricorso per il risarcimento del danno degli eredi di un autista/barelliere della Croce rossa morto dopo avere contratto l'epatite virale (evolutasi in cirrosi epatica). La Corte di appello di Napoli, invece, aveva escluso il nesso, anche a fronte del mancato uso di maschere e guanti, in quanto l'autista pur «collaborando» con gli infermieri non praticava «attività di primo soccorso», quali drenaggi e bendaggi, non entrando a diretto contatto con sangue e fluidi dell'infortunato. Non solo, il giudice territoriale non aveva neppure dato peso, in quanto l'aveva ritenuto non dirimente, al giudizio della commissione medica interna della Croce rossa che aveva accertato la dipendenza dell'infermità da causa di servizio. Per la Terza Sezione civile «la sentenza impugnata risulta censurabile laddove ha ritenuto di escludere la prova del nesso eziologico, tra le mansioni di autista/barelliere e l'avvenuta contrazione dell'epatite virale, e ciò per il solo fatto che esse non includessero il primo soccorso del degente, con il bendaggio e il drenaggio delle ferite, senza affrontare il tema se la mancata predisposizione di strumenti di protezione come mascherine e guanti - abbia, comunque, influito sulla contrazione della malattia». «Se è vero, infatti - prosegue la decisione -, che l'attività di drenaggio e bendaggio del paziente, portando chi la svolge, di regola, ad entrare in contatto con sangue e liquidi organici del malato, avrebbe certamente reso "più probabile che non" l'esistenza di tale nesso, resta, nondimeno, inteso che l'assenza di prova circa l'espletamento di tali compiti non escludeva affatto che la dimostrazione del nesso causale potesse essere conseguita "aliunde", ed in particolare dalla "mancata predisposizione dei presidi ed attrezzi" protettivi». In merito poi alla mancata valorizzazione del riconoscimento della infermità da causa di servizio, la Corte ricorda che «ove la patologia presenti un'eziologia multifattoriale, il nesso causale tra attività lavorativa ed evento, in assenza di un rischio specifico, non può essere oggetto di presunzioni di carattere astratto ed ipotetico, ma esige una dimostrazione, quanto meno in termini di probabilità, ancorata a concrete e specifiche situazioni di fatto, con riferimento alle mansioni svolte, alle condizioni di lavoro e alla durata e intensità dell'esposizione a rischio». «Orbene – prosegue -, a fronte del riconoscimento - sul piano amministrativo - dell'esistenza della "causa di servizio", ricorreva un elemento quantomeno presuntivo per ritenere che, pur in presenza di una (possibile) "eziologia multifattoriale" della patologia, la stessa abbia trovato effettivamente la propria nell'attività lavorativa espletata». Ciò, argomenta la Corte, avrebbe dovuto indurre la Corte territoriale ad interrogarsi sul possibile contributo che proprio le "condizioni di lavoro" - ovvero, l'assenza di presidi o attrezzi utili a prevenire o a ridurre i pericoli del contagio, come mascherine e guanti protettivi - «hanno potenzialmente recato, sul piano causale, alla contrazione della malattia, a prescindere dal fatto che le mansioni svolte non implicassero "bendaggio" e "drenaggio" del paziente». Un accertamento, concludono i giudici, tanto più necessario, visto che «in tema di responsabilità civile per la morte del lavoratore, il requisito soggettivo della colpa è integrato dalla violazione, da parte del datore di lavoro, delle regole cautelari di prevenzione evocate dall'art. 2087 cod. civ., strettamente correlate, in termini di ragionevole prevedibilità, alla verificazione dell'evento in quanto fondate, se non sulla certezza scientifica, sulla probabilità o possibilità - concreta e non ipotetica che la condotta considerata determini l'evento».