Visto di conformità: la Corte costituzionale dice no ai tributaristi
La sentenza sottolinea che nessuna equiparazione è praticabile tra professionisti appartenenti al sistema ordinistico e coloro che non sono organizzati in ordini o collegi
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 144 del 2024, ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 35, comma 3, del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241 sollevate dall’Associazione nazionale tributaristi – Lapet sul rilascio del visto di conformità sulle dichiarazioni dei redditi.
Lo stesso Consiglio di Stato, che nei mesi scorsi non aveva accolto il ricorso dell’Associazione sul visto di conformità ed aveva ordinato la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, aveva già chiarito che non è possibile accogliere la richiesta avanzata dalla Lapet di un’interpretazione estensiva delle categorie ammesse a rilasciare il visto di conformità in quanto, come emerge dalla ricostruzione normativa rilevante nel suddetto giudizio, solo i professionisti individuati attraverso il richiamo della circoscritta previsione di norma regolamentare possono considerarsi abilitati al rilascio del visto di conformità sulle dichiarazioni dei redditi inviate all’amministrazione finanziaria.
“Nella sentenza si osserva che nessuna equiparazione è praticabile tra professionisti appartenenti al sistema ordinistico e coloro che non sono organizzati in ordini o collegi – commenta Elbano de Nuccio, presidente del Consiglio nazionale dei commercialisti – dal momento che la legge n. 4 del 2013 ribadisce il divieto per i professionisti non organizzati, anche se iscritti alle associazioni, di svolgere un’attività riservata dalla legge a specifiche categorie di soggetti. Gli ordini professionali, infatti, sono configurati come “enti pubblici ad appartenenza necessaria” e la loro istituzione e disciplina risponde all’esigenza di tutelare un rilevante interesse pubblico la cui unitaria salvaguardia richiede che sia lo Stato a prevedere specifici requisiti di accesso, affidando loro il compito di curare la tenuta degli albi nonché di controllare il possesso e la permanenza dei requisiti in capo a coloro che sono già iscritti o che aspirino ad iscriversi al fine di garantire il corretto esercizio della professione a tutela dell’affidamento della collettività”.
“Si tratta – continua de Nuccio – di organismi associativi a partecipazione obbligatoria cui il legislatore statale ha affidato poteri, funzioni e prerogative, sottoposti a vigilanza da parte di organi dello Stato, tutti preordinati alla tutela di pregnanti interessi di rilievo costituzionale, connessi all’esercizio di attività professionali”.
“Tali poteri, funzioni e prerogative sono dunque più estesi ed effettivi di quelli esercitati dalle associazioni previste dalla legge n. 4 del 2013 – spiega il presidente dei commercialisti italiani –, in quanto sottoposti a diretta vigilanza da parte di organi statali e corredati da incisive potestà disciplinari nei confronti degli iscritti, che possono determinare, tra l’altro, la sospensione o la radiazione, con conseguente impossibilità (temporanea o definitiva) di esercitare legittimamente la professione, e quindi tutte le attività per cui è richiesta l’iscrizione all’albo. A ciò va aggiunto che il legittimo accesso agli albi presuppone il superamento di un apposito esame di Stato diretto alla verifica dei requisiti necessari per l’esercizio della professione, non previsto per l’iscrizione alle citate associazioni”.
“Il Consiglio nazionale dei commercialisti – conclude de Nuccio – ha difeso strenuamente il ruolo dei propri iscritti e quindi la funzione e le prerogative delle professioni ordinistiche, che non possono essere confuse e in alcun modo equiparate a quelle di associazioni a carattere professionale”.