Viola il divieto di discriminazione diretta anche il trattamento sfavorevole nei confronti del lavoratore che presti assistenza al marito disabile. Lo ha chiarito la Corte di cassazione con la sentenza n. 13934 depositata il 20 maggio 2024. Di recente, la Suprema Corte ha confermato il proprio consolidato orientamento secondo cui, in tema di licenziamento discriminatorio, in forza dell'attenuazione del regime probatorio ordinario introdotta per effetto del recepimento delle direttive n. 2000/78/CE, n. 2006/54/CE e n. 2000/43/CE, così come interpretate dalla CGUE, incombe sul lavoratore l'onere di allegare e dimostrare il fattore di rischio e il trattamento che assume come meno favorevole rispetto a quello riservato a soggetti in condizioni analoghe, deducendo al contempo una correlazione significativa tra questi elementi, mentre il datore di lavoro deve dedurre e provare circostanze inequivoche, idonee ad escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria della misura litigiosa (così da ultimo Cass., sez. lav., 31.3.2023, n. 9095; ed ivi il richiamo ai precedenti di legittimità in senso conforme). La Corte di Giustizia UE ha da tempo affermato che la direttiva del Consiglio 27 novembre 2000, C-2000/78/Ce, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro e, in particolare, i suoi artt. 1 e 2, n. 1 e 2, lett. a), devono essere interpretati nel senso che il divieto di discriminazione diretta ivi previsto non è limitato alle sole persone che siano esse stesse disabili. Conseguentemente qualora un datore di lavoro tratti un lavoratore che non sia esso stesso disabile, in modo sfavorevole rispetto al modo in cui è, è stato o sarebbe trattato un altro lavoratore in una situazione analoga, e sia provato che il trattamento sfavorevole di cui tale lavoratore è vittima è causato dalla disabilità del figlio, al quale presta la parte essenziale delle cure di cui quest'ultimo ha bisogno, un siffatto trattamento viola il divieto di discriminazione diretta enunciato al detto art. 2, n. 2, lett. a) (così Corte Giustizia UE, grande sezione, 17.7.2008, n. 303). E non v'è ragione di non seguire tale impostazione nel nostro ordinamento che ha dato specifica attuazione alla direttiva 2000/78/CE con il d.lgs. 9.7.2003, n. 216. In tale ultimo testo normativo, infatti, la condizione di handicap è senz'altro compresa nell'elenco tassativo dei fattori vietati di discriminazione, ma non è declinata (come nella stessa Direttiva cui ha dato attuazione) con precipuo ed esclusivo riferimento alla persona del lavoratore. E non diverse considerazioni - chiosano gli Ermellini - valgono per l'art. 3 L. n. 108/1990 in tema di "Licenziamento discriminatorio" (cui si riferisce l'art. 18, comma primo, L. n. 300/1970, novellato), ed alle previsioni in esso richiamate circa le "ragioni discriminatorie" (ossia, gli artt. 4 L. n. 604/1966 novellato; 13 L. n. 903/1977; e 15 L. n. 300/1970 novellato, in quanto quest'ultimo, al comma secondo, pure menziona espressamente l'handicap, senza riferirlo esclusivamente al lavoratore).