La rettifica in materia di transfer pricing riguarda esclusivamente operazioni con società estere, non esiste infatti nell’ordinamento tributario una norma che consenta un accertamento simile anche per le operazioni tra imprese dello stesso gruppo aventi sede però nel territorio nazionale. La valutazione del valore normale può eventualmente rilevare nell’ambito di una contestazione di antieconomicità. A fornire questi importanti principi è la Corte di Cassazione con la sentenza n. 16948 depositata il 25 giugno 2019. IL FATTO L’Agenzia delle Entrate contestava ad una società il costo praticato su cessioni infragruppo. La contribuente impugnava il provvedimento dinanzi al giudice tributario eccependo che le operazioni accertate non avevano procurato alcun vantaggio: riguardavano infatti realtà ubicate in Italia e rientravano in ordinarie logiche di gruppo. Entrambi i giudici di merito confermavano l’illegittimità della pretesa e l’Ufficio ricorreva in Cassazione. LA DECISIONE DELLA CORTE DI CASSAZIONE La Suprema Corte, confermando la sentenza di appello, ha chiarito l’applicazione dell’istituto del cd transfer pricing domestico. Innanzitutto, la disciplina del transfer pricing internazionale (articolo 110 del Tuir) non ha natura antielusiva in senso proprio in quanto finalizzata, alla repressione del fenomeno economico dello spostamento d’imponibile. La ratio della norma è legata al principio di libera concorrenza. Ne consegue così che la discrepanza rispetto al valore normale non può fondare una valutazione di elusività della transazione per le operazioni infragruppo tra società residenti, quanto piuttosto una violazione lesiva del principio di libera concorrenza. Inoltre, l’articolo 5 del Dlgs. 147/2015 ha espressamente precisato che la disciplina del transfer pricing e quindi della valutazione del valore normale, non si applica per le operazioni tra imprese residenti o localizzate nel territorio dello Stato. Le operazioni infragruppo, invece, possono essere valutate sotto il profilo dell’antieconomicità per due aspetti. Se i costi sostenuti dall’impresa sono eccessivi e sproporzionati, l’Amministrazione finanziaria può contestare l’antieconomicità, in materia di imposte dirette, ed in termini più limitati e rigorosi, anche di Iva. Tale antieconomicità assume rilievo, sul piano probatorio, come indice sintomatico della carenza di inerenza, con la conseguenza che, in tal caso, spetta al contribuente dimostrare la regolarità delle operazioni in relazione allo svolgimento dell’attività d’impresa e alle scelte imprenditoriali. Ove, invece, i profitti siano eccessivamente bassi, l’incongruità costituisce indice di un possibile occultamento (parziale) del prezzo che legittima l’Amministrazione alla ricostruzione induttiva. Solo in questi termini, quindi – ha precisato la Cassazione – lo scostamento dal cd valore normale assume rilievo quale parametro meramente indiziario: l’operazione a prezzi diversi dai valori applicati sul mercato costituisce una possibile anomalia dinanzi alla quale il contribuente può fornire prova contraria. Tuttavia, tale giudizio di inerenza operato dall’Ufficio non può tradursi in una mera «non condivisibilità della scelta» poiché in un gruppo (che potrebbe anche fruire del consolidato fiscale), il compimento di atti non onerosi potrebbe essere frutto di una decisione imprenditoriale. In conclusione, i giudici di legittimità hanno escluso che l’Amministrazione possa accertare maggiori ricavi in applicazione del cosiddetto transfer pricing tra società residenti nel territorio dello Stato. Inoltre, l’eventuale difformità dei prezzi rispetto al mercato può eventualmente giustificare la pretesa solo se l’operazione si mostra inspiegabilmente antieconomica, a condizione però che l'Ufficio non si limiti a sindacare le scelte imprenditoriali.