Sequestro preventivo e confisca obbligatoria in caso di intermediazione e sfruttamento

Fondazione Studi Consulenti del Lavoro - Approfondimento 18 settembre 2020 L’articolo 603-bis.2 del codice penale, introdotto con la legge n. 199/2016, attribuisce, mediante la confisca obbligatoria, maggiore incisività al contrasto dell’azione dei soggetti che accumulano ricchezze attraverso lo sfruttamento del lavoro, vale a dire in spregio alle norme su collocamento, minimi salariali, orari massimi di lavoro e comprimendo in maniera inaccettabile i diritti fondamentali dei lavoratori. Nell’approfondimento della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro del 18 settembre 2020 si evidenzia come, per eseguire la confisca, sia necessario attendere la irrevocabilità di una sentenza di condanna oppure di applicazione della pena, pronunciata per il reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro. Nell'intervallo di tempo necessario per giungere ad una sentenza di condanna definitiva, al fine di evitare che il datore di lavoro disperda i beni propri e quelli dell’azienda e di assicurare conseguentemente un fruttuoso risultato della confisca, il giudice, già nella fase delle indagini preliminari, potrà disporre la misura del sequestro preventivo (art. 321, comma 2, c.p.p.). Nel documento illustrate, inoltre, le indicazioni fornite in materia dalla più recente giurisprudenza della Corte di Cassazione e le ragioni che hanno ispirato il legislatore a prevedere l’obbligatorietà della confisca dei beni utilizzati per commettere il reato. La legge 29 ottobre 2016, n. 199 – con la quale è stata riformata la disciplina “in materia di contrasto ai fenomeni di lavoro nero” e “dello sfruttamento del lavoro in agricoltura” – ha introdotto nel codice penale, tra le altre importanti novità, la norma di cui all’articolo 603-bis.2 citato, che prevede obbligatoriamente la confisca: 1. degli “strumenti” con i quali è stato posto in essere il reato di “intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro”, previsto dall’articolo 603-bis; 2. dei proventi conseguiti da tale condotta illegale. Inoltre, nell’ipotesi in cui tale misura non risulti in concreto attuabile, la norma in questione contempla la possibilità di confiscare quella parte di patrimonio, ancorché di provenienza lecita, corrispondente a quanto lucrato dallo sfruttamento dei lavoratori (la cosiddetta confisca “per equivalente”). In particolare, tale disposizione di chiara matrice patrimoniale stabilisce che, nell’ipotesi “di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale per i delitti previsti dall'articolo 603-bis, è sempre obbligatoria (...) la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prezzo, il prodotto o il profitto, salvo che appartengano a persona estranea al reato” oppure, nel caso in cui questa “non sia possibile (...) di beni di cui il reo ha la disponibilità, anche indirettamente o per interposta persona, per un valore corrispondente al prodotto, prezzo o profitto del reato”. Come abbiamo visto, al fine di evitare che il datore di lavoro – imputato del reato de quo – disperda i beni propri e quelli dell’azienda e di assicurare conseguentemente un fruttuoso risultato della confisca, il giudice, già nella fase delle indagini preliminari, potrà disporre la misura del sequestro preventivo di cui al comma 2 dell’articolo 321 del codice di procedura penale. Tale misura è prevista non solo al fine di scongiurare il pericolo che la disponibilità delle cose (con cui l’attività illecita è stata commessa o che ne rappresentano il prezzo, il prodotto o il profitto) possa aggravare o protrarre le conseguenze del reato, ma anche allo scopo di rendere possibile la confisca delle stesse ai sensi dell’articolo 603-bis.2 del codice penale. Da notare, inoltre, che, per poter disporre il sequestro preventivo, il giudice deve ravvisare nella fattispecie concreta i requisiti del “fumus commissi delicti” e del “periculum in mora”. Tale principio è stato di recente ribadito in una decisione della Corte di Cassazione, la quale ha affermato che “a differenza delle misure cautelari personali quelle reali non richiedono, per la loro applicazione, la sussistenza di gravi indizi e particolari esigenze cautelari, essendo sufficienti il ‘fumus commissi delicti’ (l’esistenza di un procedimento penale per un fatto considerato astrattamente come reato) e il ‘periculum in mora’ (la sussistenza della concreta possibilità che la disponibilità del bene possa pregiudicare le esigenze preventive o conservative che si vogliono realizzare)”. Secondo l’orientamento consolidato della giurisprudenza della Suprema Corte in materia di misure cautelari reali, sussiste il “fumus commissi delicti” quando si ha la fondata e ragionevole convinzione che “un reato sia stato commesso”, vale a dire che storicamente si è verificato un fatto – anche se dalla qualificazione giuridica ancora non ben definita e di cui possono essere ancora ignoti gli autori – avente i connotati dell’illecito penale. Ora, uno dei primi accertamenti che il giudice, chiamato ad adottare un provvedimento di sequestro preventivo, deve compiere per verificare la sussistenza prima facie della fattispecie criminosa ipotizzata, consiste nel verificare se ne ricorra l’elemento psicologico. Al riguardo, la Cassazione è unanime nel ritenere che “ai fini dell’affermazione del fumus commissi delicti, per ritenere ravvisabile l’elemento soggettivo della fattispecie è sufficiente dare atto dei dati di fatto che non permettono di escludere ictu oculi la sussistenza del medesimo. È stato, peraltro, ritenuto che, “in materia di misure cautelari reali, ai fini dell’affermazione del fumus commissi delicti, pure secondo l’orientamento più garantista, non sono necessari “gravi” indizi di colpevolezza o del reato, ma solo elementi di fatto, anche solo indiziari, che consentano di ricondurre l’evento punito dalla norma penale alla condotta dell’indagato”. Pertanto, alla luce di tale principio di diritto, è da reputare legittimamente disposto il sequestro preventivo “in presenza di un reato che risulti sussistere in concreto, indipendentemente dall’accertamento della presenza dei gravi indizi di colpevolezza o dell’elemento psicologico, atteso che la verifica di tali elementi è estranea all’adozione della misura cautelare reale”. Per quanto concerne, poi, l’ulteriore presupposto del “periculum in mora” – cioè il pericolo che la libera disponibilità di una cosa pertinente al reato possa aggravarne o protrarne le conseguenze ovvero agevolare la commissione di altri reati – gli Ermellini hanno affermato che questo deve “intendersi non come generica ed astratta eventualità, ma come concreta possibilità, desunta dalla natura del bene e da tutte le circostanze del fatto, che il bene assuma carattere strumentale rispetto all’aggravamento o alla protrazione delle conseguenze del reato ipotizzato o alla agevolazione della commissione di altri reati”. Inoltre, secondo il Supremo Collegio, il pericolo rilevante, ai fini dell’adozione del sequestro preventivo, “deve essere inteso in senso oggettivo, come probabilità di danno futuro, connessa all’effettiva disponibilità materiale o giuridica della cosa o al suo uso, e deve essere concreto e attuale”. È, infine, importante evidenziare che “il periculum in mora deve presentare i requisiti della concretezza e attualità e richiede che sia dimostrato un legame funzionale essenziale, e non meramente occasionale, fra il bene e la possibile commissione di ulteriori reati o l’aggravamento o la prosecuzione di quello per cui si procede”. Si tratta, ora, di verificare sulla base di quali elementi, in ipotesi di reato di “intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro”, il giudice possa ritenere sussistenti i requisiti del “fumus commissi delicti” e del “periculum in mora”. Quanto al primo, il giudice trae di solito il proprio convincimento dai risultati delle indagini fino a quel momento compiute, rappresentate dalla “attività captativa” (di osservazione, in seguito a sopralluoghi, di intercettazione delle conversazioni telefoniche) e dai “racconti e descrizioni rese nel corso delle sommarie informazioni o nell’incidente probatorio dalle vittime dello sfruttamento”. Mentre, in ordine al pericolo di prosecuzione dello sfruttamento dell’attività lavorativa, sono ritenuti elementi “concretamente significativi del pericolo di protrazione della condotta delittuosa e di aggravamento delle relative conseguenze”: 1. “l’ampio periodo temporale in cui si è perpetrata l’attività di sfruttamento di manodopera agricola”; 2. “il numero dei braccianti coinvolti nel fenomeno illecito”; 3. “le modalità spesso cruente con cui i braccianti sono costretti a subire condizioni di lavoro assai poco dignitose”. Esaminati lo strumento con il quale è possibile creare un vincolo di indisponibilità sui beni o sul denaro e i presupposti che ne legittimano l’adozione, è ora necessario indirizzare l’analisi sulla individuazione delle “cose che servirono o furono destinate a commettere il reato”, delle quali il giudice, in presenza della violazione della fattispecie di cui all’articolo 603-bis del codice penale, può disporre il sequestro preventivo ex articolo 321 del codice di procedura penale in vista di una futura confisca obbligatoria. Si tratta, in definitiva, di passare al setaccio la giurisprudenza elaborata in subiecta materia, allo scopo di individuare i beni che frequentemente vengono sottoposti a sequestro e le ragioni per le quali sono ritenuti legati da un vincolo di pertinenzialità con il reato di cui all’articolo 603-bis del codice penale. Giova premettere che “l’espressione cose pertinenti al reato, cui fa riferimento l’art. 321 cod. proc. pen., seppur più ampia di quella di corpo del reato, come definita dall’art. 253 cod. proc. pen., comprendendo non solo le cose sulle quali o a mezzo delle quali il reato fu commesso o che ne costituiscono il prezzo, il prodotto o il profitto, ma anche quelle legate solo indirettamente alla fattispecie criminosa, non si estende sino al punto di attribuire rilevanza a rapporti meramente occasionali con la res e l’illecito penale”. Tradotto in termini concreti, il principio enunciato significa che, perché un bene possa venire sottoposto a sequestro preventivo, deve sussistere un vincolo stabile e perdurante nel tempo con la condotta illecita della quale è stato lo strumento. In altre parole, secondo la Corte di Cassazione, non potrebbe disporsi il sequestro finalizzato alla confisca obbligatoria di una cosa che sia stata “occasionalmente” utilizzata per commettere il reato ex articolo 603-bis del codice penale. Tra i casi esaminati spicca quello in cui il sequestro è andato a colpire i veicoli, “utilizzati per il trasporto sui fondi agricoli dei braccianti”, “trattandosi di mezzi mediante i quali è stato possibile commettere il reato in contestazione e quindi, come suscettibile di confisca obbligatoria ex art. 603-bis 2 c.p.”. In tali ipotesi, è stato ritenuto sussistente il “periculum in mora”, poiché “la disponibilità in capo agli indagati dei veicoli posti sotto sequestro consentiva loro di protrarre la condotta criminosa già realizzata”. Un’altra “cosa” sulla quale cade di frequente il sequestro preventivo è l’azienda agricola, poiché si sostiene che “la libera disponibilità delle aziende” possa “agevolare la prosecuzione dell’attività illecita, la realizzazione di analoghi reati e aggravarne le conseguenze ai danni dei lavoratori impiegati e già sfruttati” e, di conseguenza, è reputato “esistente il nesso di strumentalità necessaria tra le aziende e i beni aziendali e l’attività di sfruttamento dell’opera dei braccianti”. In definitiva, “la disponibilità delle aziende in mano ai” datori di lavoro “consente loro di continuare ad utilizzare manodopera agricola in condizioni così indecorose e mortificanti per ottenere maggiori utili ed ingiusti profitti”. Sussiste, pertanto, un vincolo di pertinenzialità tra le aziende – che siano oggetto di sequestro – e la condotta che integra la fattispecie ex articolo 603-bis. Queste sono le ragioni per le quali, secondo l’indirizzo tracciato dalla Corte di Cassazione, le aziende agricole sono annoverate tra le cose pertinenti al reato di cui all’art. 603-bis del codice penale e come tali suscettibili di sequestro preventivo ex articolo 321 del codice di procedura penale. Vi è, tuttavia, da segnalare un’ipotesi in cui le aziende agricole non sono state ritenute suscettibili di confisca obbligatoria, in quanto “preesistenti alle condotte delittuose contestate” e, quindi, “non costituite per commettere il reato” ex articolo 603-bis del codice penale. In questo caso, “essendo le condotte di sfruttamento dei braccianti agricoli perpetrate solo per migliorare la produttività delle aziende”, non è stato ravvisato “il nesso strumentale tra le aziende agricole ed il reato contestato”. Tale impostazione è scaturita dall’applicazione del principio (stabilito per una fattispecie del tutto differente da quella in esame) secondo cui “in tema di confisca di cose servite per la commissione del reato, è necessaria la sussistenza di un nesso di specifica, non occasionale e non mediata strumentalità tra il bene e la condotta criminosa, da valutare anche verificando la corrispondenza della misura cautelare adottata ai principi di adeguatezza e proporzionalità rispetto alla finalità della stessa”. In tali casi, tuttavia, potrà essere disposta la confisca per equivalente e cioè l’ablazione di cose (beni o danaro) di valore corrispondente al vantaggio economico lucrato grazie alla condotta illecita. Questo strumento permette, infatti, “la sottrazione al soggetto attivo del delitto del vantaggio economico da esso conseguito attraverso la sua condotta criminale”. Vale, infine, la pena citare il caso in cui il giudice ha disposto il sequestro, ai sensi dell’articolo 321, comma 2, del codice di procedura penale in vista della successiva confisca ex articolo 603-bis.2 del codice penale, delle quote sociali di una Società cooperativa. Tale provvedimento è stato adottato sul presupposto che “i lavoratori sfruttati espletavano lavoro per conto della citata società cooperativa” e sussisteva, pertanto, “il vincolo di pertinenzialità delle quote della Società cooperativa e dei suoi beni rispetto al reato di cui all’art. 603-bis c.p., trattandosi di cose che servirono o furono destinate a commettere il reato contestato”. In altri termini, secondo il giudice, “la società ha costituito lo strumento giuridico di cui gli indagati si sono serviti per la commissione dei reati e i relativi beni aziendali sono stati strumentalizzati per la commissione dei reati in quanto destinati in modo continuativo allo svolgimento dell’attività dei lavoratori sfruttati. Pertanto, deve concludersi che i beni aziendali della Società cooperativa sono confiscabili in quanto servirono o furono destinati alla commissione del reato contestato”. Un aspetto pratico rilevante da tratteggiare concerne le vicende del provvedimento di sequestro preventivo successive alla sua emanazione. Non vi è dubbio che esso è soggetto agli ordinari mezzi di controllo (richiesta di riesame, ai sensi dell’articolo 322 del codice di procedura penale, e, “fuori dei casi previsti” da tale norma, l’appello a norma dell’articolo 322-bis del medesimo codice di rito). Tuttavia, a tale sequestro – secondo una interpretazione teleologica e sistematica dell’ordito normativo offerta dalla Corte di Cassazione – non è applicabile l’istituto della revoca, in quanto esso è preordinato ad un provvedimento (la confisca), la cui adozione è obbligatoria. A sostegno di tale soluzione ermeneutica, la Corte di Cassazione ha affermato che deve “darsi continuità all’orientamento secondo il quale il principio in forza del quale il sequestro non può essere revocato nelle sole ipotesi di cui all’art. 240, comma 2, cod. pen. (sequestro del prezzo del reato o di cose intrinsecamente pericolose), non impone assolutamente di limitare il sequestro per garantire la confisca alle sole cose indicate nell’art. 240 cod. pen., comma 2, o comunque di revocarlo quando oggetto del sequestro siano cose diverse da quelle di cui al comma 2 dell'articolo dianzi citato”. Per quanto concerne, infine, la confisca, è da rilevare che il legislatore, all’articolo 603-bis.2 del codice penale, ne ha previsto l’obbligatorietà, estendendo a tale fattispecie il precetto ex articolo 240, comma 2, del codice penale, secondo cui “è sempre ordinata la confisca delle cose che costituiscono il prezzo del reato” o di cose intrinsecamente pericolose. Al riguardo, c’è da aggiungere che se, nella ipotesi di “intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro” prevista dall’articolo 603-bis, il legislatore non avesse espressamente stabilito l’obbligatorietà della confisca, in molti casi, sarebbe stato impossibile fronteggiare e reprimere anche con misure patrimoniali ablative un grave reato come quello in parola. Si pensi, ad esempio, ai veicoli utilizzati per trasportare – quasi sempre “in condizioni disumane” – i lavoratori sui luoghi di lavoro. Invero, in assenza di una norma come quella di cui all’articolo 603-bis.2 del codice penale, tali mezzi “andrebbero ricondotti, seguendo le linee tracciate dall’art. 240 cod. pen., nel novero delle cose indicate nel primo comma di detto articolo, soggette a confisca facoltativa (‘nel caso di condanna il giudice può ordinare la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato’). Il mezzo di trasporto non è, infatti, ex se una res tale da non poter restare in circolazione prescindendo dal soggetto che ne aveva la disponibilità e dall’esito del giudizio, ma una res da considerarsi pericolosa solo in relazione a quel soggetto (che ha utilizzato il veicolo per la commissione del reato qui ipotizzato e previsto dall’art. 603-bis cod. pen.)”. È logico, quindi, concludere che l’obbligatorietà della confisca ex articolo 603-bis.2 deve considerarsi ipotesi speciale rispetto a quella prevista dall’articolo 240, comma 2, del codice penale.

Sequestro preventivo e confisca obbligatoria in caso di intermediazione e sfruttamento

La confisca obbligatoria attribuisce maggiore incisività al contrasto dell’azione dei soggetti che accumulano ricchezze in spregio alle norme su collocamento, minimi salariali, orari massimi di lavoro e comprimendo in maniera inaccettabile i diritti fondamentali dei lavoratori

Lascia un commento Annulla risposta