Nuovo regime degli impatriati dal 2024 con requisiti più stringenti per potervi accedere. È quanto emerge dalla lettura dell’art. 7 della bozza di D.Lgs. recante la riforma della fiscalità internazionale, approvato in via preliminare dal Consiglio dei Ministri del 16 ottobre 2023, il quale ridisegna la disciplina fiscale di favore prevista per le persone fisiche che trasferiscono la residenza fiscale nel territorio dello Stato, ove conseguono redditi da lavoro dipendente e redditi da lavoro autonomo. Nuovi limiti dal 2024 L’art. 7, comma 1 della bozza di D.Lgs. prevede, infatti, che i redditi di lavoro dipendente, assimilati a quelli da lavoro dipendente e i redditi di lavoro autonomo prodotti in Italia da lavoratori che trasferiscono la residenza fiscale (intesa secondo quanto stabilito dall’articolo 2 del TUIR) nel territorio dello Stato, entro il limite di 600.000 euro annui concorrono alla formazione del reddito complessivo limitatamente al 50% del loro ammontare, laddove siano soddisfatte le seguenti condizioni: a) i lavoratori non sono stati fiscalmente residenti in Italia nei tre periodi d’imposta precedenti il predetto trasferimento e si impegnano a risiedere fiscalmente nel territorio dello Stato per almeno 5 anni. La nuova formulazione normativa, a differenza di quella vigente, richiede quindi che il contribuente che trasferisce la residenza fiscale in Italia sia stato prima di detto trasferimento residente all’estero per tre e non più due periodi d’imposta. Tale modifica temporale potrebbe trovare la sua ratio nella volontà del legislatore delegato di porre rimedio ai fenomeni di trasferimento strumentale della residenza fiscale dall’estero in Italia da parte dei contribuenti (cittadini italiani o meno), al fine di poter beneficiare del regime agevolativo in questione. Non solo, ma per accedere alla riduzione della tassazione dei redditi prodotti in Italia a seguito del trasferimento nel territorio dello Stato, viene richiesto che il contribuente mantenga ivi la residenza fiscale per almeno 5 anni. Attenzione, che il legislatore con specifico riferimento a tale requisito non fa riferimento al concetto di “periodo d’imposta” ma a quello di “anno”. Laddove tali termini siano considerabili come sinonimi non si porrebbe alcun problema interpretativo; in caso contrario, invece, supponendo che un soggetto trasferisca la propria residenza fiscale in Italia a decorrere dal 1° gennaio 2024, lo stesso dovrebbe ivi risiedere almeno fino al 31 dicembre 2028, per non perdere gli affetti dell’agevolazione. Infatti, il comma 2 dell’art. 7 in esame, introduce uno specifico regime di recapture disponendo che “Qualora la residenza fiscale in Italia non sia mantenuta per almeno cinque anni consecutivi al trasferimento, il lavoratore decade dai benefici e l’Amministrazione finanziaria provvede al recupero di quelli già fruiti con applicazione delle relative sanzioni e interessi”. In altri termini, la nuova disciplina pone un vincolo almeno quinquennale di permanenza nel territorio dello Stato, da parte dei contribuenti che ivi decidono di trasferire la loro residenza fiscale. Residenza fiscale, ai fini della cui identificazione occorre fare riferimento ai nuovi criteri dettati - con decorrenza 1° gennaio 2024 - dalla nuova formulazione dell’art. 2, comma 2 del TUIR, secondo i quali una persona fisica si considera fiscalmente residente nel territorio dello Stato e quindi ivi tassata sui redditi ovunque prodotti, se per la maggior parte del periodo d’imposta, considerando anche le frazioni di giorno ha: - la residenza; - il domicilio, da intendersi - secondo quanto previsto dal legislatore delegato - unicamente come il luogo in cui si sviluppano, in via principale, le relazioni personali e familiari della persona; - è presente, nel territorio dello Stato. Il comma 3, dell’art. 7 dispone, inoltre, che il regime agevolativo in commento spetta oltre che ai cittadini italiani iscritti all’Anagrafe degli Italiani Residenti all'Estero (AIRE), anche a quelli che non sono iscritti all’AIRE purché siano stati fiscalmente residenti in un altro Stato ai sensi di una convenzione contro le doppie imposizioni sui redditi nel periodo di tre anni. b) l’attività lavorativa viene svolta nel territorio dello Stato in virtù di un nuovo rapporto di lavoro con un soggetto diverso da quello presso il quale il lavoratore era impiegato all’estero prima del trasferimento, nonché da quelli appartenenti al suo stesso gruppo. Anche il rispetto di tale condizione risulta finalizzato a ridurre fenomeni di trasferimenti “fittizi” in Italia da parte dei lavoratori che di fatto continuano a mantenere rapporti lavorativi con il medesimo datore di lavoro o con società appartenenti al medesimo gruppo societario, ma mutano solo la sede lavorativa, al solo fine di fruire della detassazione del reddito conseguito in Italia. La norma a tal riguardo richiede la stipulazione di un contratto di lavoro nuovo con un nuovo datore di lavoro, del tutto estraneo non solo rispetto a quello con il quale si intratteneva un rapporto lavorativo all’estero, ma anche estraneo al gruppo a cui apparteneva la società datrice di lavoro all’estero; c) l’attività lavorativa è prestata per la maggior parte del periodo d’imposta nel territorio dello Stato. Tale previsione è sicuramente finalizzata a ridurre fenomeni di smart working, ossia ridurre le ipotesi in cui un soggetto trasferisce la residenza fiscale dall’estero in Italia, contrae un nuovo rapporto di lavoro con una società Italiana, ma di fatto continua a prestare la sua attività lavorativa dall’estero; d) i lavoratori sono in possesso dei requisiti di elevata qualificazione o specializzazione, come dal come specificati nel D.Lgs. del 6 novembre 2007, n. 206, per le professioni regolamentate, e nel D.Lgs. del 28 giugno 2012, n. 108, per coloro che sono titolari di una qualifica professionale superiore rientrante nei livelli 1 (legislatori, imprenditori e alta dirigenza), 2 (professioni intellettuali, scientifiche e di elevata specializzazione) e 3 (professioni tecniche) della classificazione ISTAT delle professioni CP 2011, attestata dal paese di provenienza e riconosciuta in Italia. La richiesta di tali requisiti riduce in maniera significativa la platea di contribuenti che potranno accedere al regime agevolativo in parola. Al ricorrere di tali condizioni, i redditi di lavoro dipendente, assimilati a quelli di lavoro dipendente e i redditi di lavoro autonomo entro il limite di 600.000 euro annui concorreranno alla formazione del reddito complessivo limitatamente al 50% del loro ammontare. L’introduzione di un tetto massimo di reddito agevolabile risulta porsi in contrasto non solo con la finalità della norma, ossia quella di attrarre in Italia lavoratori altamente specializzati e qualificati, ma anche contraria ad ogni politica premiale e incentivante prevista per i lavoratori, che comunque non si vedrebbero riconosciuto alcun vantaggio fiscale su remunerazioni eccedenti tale soglia reddituale. Si segnala, inoltre, che le disposizioni agevolative si applicano nel rispetto delle condizioni e dei limiti previsti dai regolamenti UE per gli aiuti “de minimis”. Decorrenza a regime transitorio Con riferimento, infine, alla decorrenza del nuovo regime degli impatriati, si precisa che lo stesso si applica in favore dei soggetti che conseguono la residenza fiscale in Italia a decorrere dal periodo d’imposta 2024. A decorrere da tale data sono abrogate le disposizioni che hanno istituito il regime agevolativo in favore dei lavoratori impatriati (art. 16 del D.Lgs. n. 147/2015 e art. 5, co. 2.bis, 2.ter e 2. quater del D.L. n. 34/2019), le quali comunque continuano a trovare applicazione per i soggetti che hanno conseguito la loro residenza fiscale in Italia entro il 31 dicembre 2023. Considerazioni conclusive La lettura dell’art. 7 in parola porta a fare qualche considerazione in merito alle scelte operate dal legislatore delegato, che in prima battuta, appaiono finalizzate a reprimere fenomeni dettati più da esigenze di “opportunità” fiscale che dalla reale volontà di trasferire la propria residenza fiscale nel territorio dello Stato. Allo stesso tempo, però, non vi è dubbio che se - sin dalla sua introduzione - il fine ultimo della norma agevolativa in parola è stato quello di favorire il rientro dei cervelli in Italia, cercando di porre rimedio al fenomeno della “fuga di cervelli” che per anni ha caratterizzato il tessuto sociale ed economico del Paese e che, ahimè, continua a caratterizzarlo tutt’ora, la continua modifica delle norme previste per agevolare detto rientro non risulta certamente favorevole allo stesso. Non vi è dubbio che un sistema fiscale capace di attrarre investimenti e cervelli sia quello che si caratterizza dalla certezza del diritto, da una costante e non ondivaga interpretazione della norma da parte dell’Amministrazione finanziaria e da un chiaro e certo regime sanzionatorio. Caratteristiche queste che non sembra però proprie del sistema fiscale italiano.