La normativa sul reddito di cittadinanza (D.L. 28 gennaio 2019, n. 4, convertito in legge 28 marzo 2019 n. 26) ha ritenuto – condivisibilmente – che fosse necessario e urgente introdurre sia misure di contrasto all’esclusione sociale sia, in particolare, di sostegno economico diretto a garantire il diritto al lavoro e a favorire l’inserimento nel mondo del lavoro. Quindi, il “reddito di cittadinanza” (così la rubrica dell’art. 1) nasce non come misura meramente assistenziale per chi è economicamente emarginato, ma come opportunità transitoria per agevolare l’accesso ad un lavoro “degno”, anche attraverso una razionalizzazione dei servizi per l’impiego che favorisca l’avvicinamento tra domanda e offerta di lavoro. Accertamento dei requisiti e sanzioni Per beneficiare del reddito (o della pensione) di cittadinanza sono necessari precisi requisiti, prevalentemente di natura economica e di residenza, e il permanere nel tempo delle condizioni patrimoniali che hanno consentito l’erogazione iniziale (art. 3) nonché la immediata disponibilità al lavoro, ove offerto. Poichè l’incipit della procedura di erogazione è la richiesta da parte dell’interessato accompagnata da una sostanziale autodichiarazione circa i redditi e la composizione del nucleo familiare e poichè vi è consapevolezza che i controlli affidati all’INPS e da espletarsi entro 5 giorni lavorativi non possono evidentemente dare garanzie del necessario approfondimento (anche perchè a priori circoscritti ai dati “disponibili nei propri archivi”), è diventato necessario prevedere sanzioni per contrastare l’indebita fruizione originaria o sopravvenuta del reddito di cittadinanza. La norma incriminatrice applicabile alla fattispecie esisteva già ed era l’art. 316 ter c.p. che sanziona con la reclusione da sei mesi a tre anni la “indebita percezione di erogazione a danno dello Stato”, ma il legislatore del 2019 ha preferito introdurre una fattispecie incriminatrice specifica (art. 7 commi 1 e 2) caratterizzata da un forte inasprimento dell’apparato sanzionatorio: “salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, al fine di ottenere indebitamente il beneficio di cui all’art. 3, rende o utilizza dichiarazioni o documenti falsi o attestanti cose non vere, omette informazioni dovute, è punito con la reclusione da due a sei anni“ (pena ridotta alla reclusione da uno a tre anni per omessa comunicazione delle variazioni del reddito o del patrimonio che siano idonee a determinare la perdita o la riduzione del beneficio erogato). Una riflessione merita il requisito di non godere di redditi “provenienti da attività irregolari”. Da un lato è evidente che questi possano emergere essenzialmente dall’autodichiarazione (ma che vi è un controinteresse a farlo emergere): si pensi ad un reddito da reato, di per sé fiscalmente da dichiarare, ma ovviamente non dichiarato per evitare processi e condanne penali. Dall’altro, è evidente che la condotta produttiva del reddito può essere non di rilievo penale (si pensi a forme di lavoro nero, senza sfruttamento) e in tal caso si crea un interesse nel prestatore d’opera a tacere di essere un lavoratore irregolare perché l’emersione del reddito occultato comprometterebbe la fruizione del reddito di cittadinanza: ciò, alla resa dei conti, favorisce il lavoro irregolare perché il datore di lavoro sa (o può sapere) dell’interesse del prestatore d’opera a che non si sappia della prestazione di lavoro irregolare ma retribuito e, quindi, ostativo. Il tutto, peraltro, ponendosi in controtendenza con la ratio della legge che aspira, tra le altre cose, proprio all’emersione del lavoro sommerso. L’art. 7, comma 3, prevede la condanna penale per fruizione del beneficio in assenza dei requisiti ex ante o ex post ma anche a seguito della commissione di altri reati che il legislatore ritiene incompatibili con la fruizione del beneficio. Non è chiaro se si voglia affermare il principio che la solidarietà economica va meritata con un comportamento almeno non di rilievo penale, ma anche a prescindere da valutazioni etiche il legislatore ritiene che la commissione di determinati gravi reati (es. di mafia) sia ontologicamente produttiva di un profitto (da reato) che – per quanto non determinato con esattezza – è incompatibile con la condizione di non abbienza alla base dell’erogazione iniziale e del mantenimento del reddito di cittadinanza. Processo penale per indebita percezione del beneficio Il processo penale per indebita percezione del beneficio può nascere da accertamenti dell’INPS o dei Centri per l’impiego o da accertamenti autonomi affidati all’autorità amministrativa o alle forze dell’ordine (si pensi all’art. 220 disp. coord. c.p.p.) e concludersi anche con riti processuali idonei a mitigare la pena inflitta in concreto. L’art. 7 comma 3 prende specificamente in considerazione il c.d. patteggiamento (artt. 444 e ss. c.p.p.) per mettere in chiaro che l’accordo tra le parti (PM e imputato) potrà riguardare la pena principale e quelle accessorie (da ridursi fino ad un terzo), ma non l’obbligo per il giudice della “immediata revoca del beneficio con efficacia retroattiva” e l’obbligo per il beneficiario senza titolo della “restituzione di quanto indebitamente percepito” (o percepito in eccesso). Poiché “la revoca è disposta dall’INPS” sarebbe stato opportuno prevedere la comunicazione, a cura dell’autorità giudiziaria procedente, all’INPS dell’esistenza di un procedimento penale per indebita fruizione del reddito (o pensione) di cittadinanza (anche al fine di consentire la costituzione di parte civile nel processo) o, almeno, la comunicazione dell’esito del processo (condanna definitiva) presupposto per eseguire concretamente la restituzione integrale di quanto indebitamente percepito. Emerge, comunque, e con chiarezza, il ruolo dell’INPS come organo preposto agli accertamenti, come organo obbligato alla segnalazione di reato all’autorità giudiziaria ove ne ravvisi i presupposti, come organo che – non ravvisando indizi di reato (ma indizi di irregolarità) o in attesa dell’accertamento penale – può/deve procedere in autonomia alla immediata revoca del beneficio con efficacia retroattiva e ad ottenerne la restituzione, come organo destinatario delle comunicazioni da parte di chi “nel corso di attività ispettive svolte dalle competenti autorità” (es., centri per l’impiego e i comuni) è tenuto a segnalare la indisponibilità all’accettazione del lavoro offerto. Il legislatore, nella consapevolezza della massa di accertamenti necessari, coinvolge nell’attività di contrasto tutte le risorse disponibili vincolando INL, INPS, Agenzia delle entrate, CC et altri a segnalare i responsabili con una comunicazione che non solo identifichi la persona coinvolta ma offra contestualmente “la documentazione completa del fascicolo oggetto di verifica” (art. 7 comma 14). Revoca del beneficio Un’ultima considerazione concerne il requisito della sentenza definitiva di condanna penale perché si arrivi alla revoca del beneficio (e all’obbligo di restituzione). L’art. 7 ter prevede eventi processuali che implicano la sospensione immediata dell’erogazione del beneficio da parte dell’autorità giudiziaria penale procedente [es., misura di cautela personale: tutte (articoli 272 e ss. c.p.p.) e non solo quelle privative della libertà personale]. Anche la condanna non definitiva postula la sospensione del beneficio per evitare che i tempi non brevi del processo penale implichino una erogazione potenzialmente indebita prolungata nel tempo: per converso, l’assoluzione finale implica il ripristino del beneficio e la rimozione degli effetti della sospensione, ma tale effetto favorevole può essere anticipato in caso di dissolvenza degli indizi a carico. Poiché abbiano effetto, i provvedimenti di sospensione devono essere comunicati all’INPS che ne curerà l’immediata esecuzione: fuori di questo contesto è possibile che l’INPS non abbia cognizione dell’apertura e degli sviluppi del procedimento penale. Un’ultimissima osservazione concerne l’art. 7 ter, comma 3 che, in via generale, amplia le informazioni che, in sede di interrogatorio, l’indagato deve rendere all’Autorità giudiziaria procedente: tra le domande che l’interrogante deve formulare e cui l’interrogato deve rispondere veridicamente vi è quella circa la fruizione del beneficio del reddito di cittadinanza. La risposta potrebbe essere pregiudizievole per l’indagato, ma il legislatore non consente di opporre il diritto al silenzio e, di fatto, può determinare un’autodenuncia.