Corte di Giustizia Ue - Causa C‑276/18 Con la sentenza resa nella causa C-276/18 del 18 giugno 2020, la Corte di Giustizia Ue offre alcuni spunti di riflessione sul tema delle vendite a distanza e dei criteri di collegamento tra cessione e trasporto. Secondo la Corte, una cessione di beni rientra nell’ambito di applicazione dell’art. 33 della direttiva IVA se il ruolo del fornitore è preponderante quanto all’iniziativa nonché all’organizzazione delle fasi essenziali della spedizione o del trasporto dei beni. Alla luce di questi principi occorre dunque ricercare i criteri di assoluta rilevanza pratica che permettono agli operatori economici di stabilire, con ragionevole certezza, se il trasporto sia collegato alla cessione intra-UE con la conseguente tassazione dell’operazione a destino, anziché, nel caso di separazione tra le due operazioni, con il prelievo della vendita nel Paese del fornitore. Il meccanismo di applicazione dell’IVA si basa sul principio di tassazione nel luogo in cui, ragionevolmente, si ritiene che avvenga il consumo (cfr. art. 138 e 10° e 11° Considerando della direttiva n. 2006/112/CE). Tutto ciò nel rispetto del principio cd. only once, secondo il quale la tassazione della cessione intra-UE viene garantita nell’uno o nell’altro Stato evitando, così, conflitti di competenza da cui possa derivare una doppia imposizione oppure, specularmente, il mancato prelievo dell’IVA come sostanzialmente accaduto per le operazioni di leasing rese da una società tedesca nel Regno Unito (Corte di Giustizia, sentenza 22 dicembre 2010, C‑277/09, RBS). La tassazione IVA delle cessioni di beni Nel 1993, l’abolizione delle barriere doganali fra gli stati membri ha comportato l’adozione di regole complesse di tassazione delle cessioni di beni, che fossero, tuttavia, rispettose del suddetto principio. Da un lato, le cessioni nei confronti di soggetti passivi stabiliti in altri paesi UE scontano l’imposta con il meccanismo del reverse charge, mentre più problematica è apparsa la tassazione delle vendite nei confronti di privati. Inizialmente, era stata sottostimata l’importanza delle vendite a distanza non essendo ancora disponibile uno strumento di facile utilizzo. La rapida e capillare diffusione di internet ha capovolto il paradigma, amplificando a dismisura le vendite di questo tipo. Di conseguenza, gli operatori economici si sono interessati sempre più alle regole di territorialità applicabili a questa fattispecie (art. 33, direttiva n. 2006/112) valutando la soluzione di maggiore convenienza in funzione delle diverse aliquote applicate in ciascun stato membro. Tale impostazione non è scardinata dall’introduzione di soglie quantitative per le vendite a distanza - quasi del tutto cancellate a partire dal 1° gennaio 2021 (cfr. art. 2, direttiva n. 2017/2455 del 5 dicembre 2017) - al di sotto delle quali l’operazione, per ragioni di semplificazione, rimane assoggettata al prelievo nel Paese del cedente. Si tratta, infatti, di misura agevolativa in favore degli operatori economici che, dunque, non può cambiare l’idea di fondo emergente dalla direttiva n. 2006/112/CE sulla tassazione a destino della vendita transfrontaliera. Idea che, però, non va confusa con la modalità di versamento dell’IVA al Paese di destinazione che, a seconda della tipologia di operazione B2B o B2C, viene effettuata dal cessionario con il meccanismo del reverse charge oppure dal cedente mediante l’identificazione nello Stato del cliente o tramite il regime speciale del MOSS (dal 1° gennaio 2021). Problematiche di incerta soluzione Una volta chiariti questi concetti, occorre orientare l’attenzione sulle problematiche relative alle cessioni di beni con trasporto che attualmente sono divenute di incerta soluzione. Ed è la questione che, più o meno sottotraccia, è affrontata nella sentenza in commento. Brevemente i fatti di causa. Una società stabilita in Polonia (Krak VeT), nel 2012, ha venduto tramite il suo sito web prodotti di alimenti per animali domestici a clienti, non soggetti passivi, situati in Ungheria. La Krak VeT offriva ai propri clienti la possibilità di far trasportare i beni venduti nel proprio paese sia tramite un qualsiasi trasportatore, sia optando per i servizi di una società polacca (KBGT) con costi di trasporto inferiori a quelli di mercato e, in determinate ipotesi, puramente simbolici. In sostanza, la Krak VeT in questo modo riteneva di poter “spezzare” l’operazione escludendo l’applicazione dell’art. 33 della direttiva il quale prevede espressamente che le cessioni con trasporto a cura del cedente siano tassate a destino. Sotto il profilo economico, l’obiettivo della Krak VeT è di poter applicare l’imposta in Polonia ove era in vigore una aliquota nettamente inferiore a quella del paese di destinazione. Ed ecco perché viene posto alla Corte il quesito sull’art. 33 della direttiva, precisamente, sul significato da attribuire all’espressione “beni [...] spediti o trasportati dal fornitore o per suo conto”. In sostanza, la domanda è se tale norma si applichi al cospetto di un intervento del fornitore solo diretto o anche indiretto. E il dubbio nasce dalle modifiche apportate dalla direttiva n. 2017/2455 che hanno aggiunto un quarto paragrafo all’art. 14 della direttiva n. 2006/122/CE, in vigore dal 1° gennaio 2021, che così recita: “si intende per [...] vendite a distanza intracomunitarie di beni, le cessioni di beni spediti o trasportati dal fornitore o per suo conto, anche quando il fornitore interviene indirettamente nel trasporto o nella spedizione dei beni, a partire da uno Stato membro diverso da quello di arrivo della spedizione o del trasporto a destinazione dell'acquirente”. Resta sullo sfondo la tesi adombrata della natura abusiva dell’intera operazione. È vero che il soggetto cedente ha applicato l’aliquota IVA polacca, dopo il placet di approvazione dell’autorità tributaria della Polonia. Tuttavia, vi sono elementi che lasciano trapelare il sospetto di un utilizzo abusivo delle disposizioni IVA, uno per tutti lo stretto legame di parentela tra i due proprietari delle società polacche, ossia, il fornitore (Krak Vet) ed il trasportatore (KBGT). Tutti questi molteplici nodi interpretativi sono stati risolti dalla Corte di Giustizia. La quale, oltre ad aver sancito che gli elementi di fatto non fossero sufficienti per dimostrare l’esistenza di una costruzione meramente artificiosa dell’operazione, ha ritenuto legittima la decisione dell’autorità fiscale ungherese di recuperare l’IVA nonostante la cedente l’avesse già versata in Polonia a seguito, peraltro, della risposta all’interpello fornita dalla medesima dall’Amministrazione finanziaria polacca. A tale conclusione non è ostativo, precisa la Corte, il regolamento di cooperazione amministrativa n. 904/2010 e tanto meno la direttiva n. 2006/112/CE in quanto, nell’ipotesi di doppia imposizione, l’operatore economico avrebbe comunque il diritto al rimborso dell’IVA indebitamente versata. Passando alla questione centrale della controversia, i giudici di Lussemburgo ritengono inapplicabili alla fattispecie le modifiche alla direttiva n. 2006/112/CE perché successive all’effettuazione delle operazioni in esame. Aggiungendo, altresì, che “una cessione di beni rientri nell’ambito di applicazione dell’articolo 33 della direttiva 2006/112 qualora il ruolo del fornitore sia preponderante quanto all’iniziativa nonché all’organizzazione delle fasi essenziali della spedizione o del trasporto dei beni” (punto 63). Si tratta di un approdo che si pone in continuità con il costante trend della Corte a valorizzare sia la “ratio sottesa alle disposizioni [...] riguardanti il luogo delle cessioni di beni”, cioè, che “l’imposizione si effettui, nella misura del possibile, nel luogo della loro fruizione” (punto 60), sia la “realtà economica e commerciale [che] costituisce un criterio fondamentale per l’applicazione del sistema comune di IVA” (punto 61). Ed è alla luce di questi principi, posti dalla Corte di Giustizia, che occorre ricercare, senza cadere troppo in astratte concettualizzazioni, i criteri di assoluta rilevanza pratica che permettono agli operatori economici di stabilire, con ragionevole certezza, se il trasporto sia collegato alla cessione intra-UE con la conseguente tassazione dell’operazione a destino, anziché, nel caso di separazione tra le due operazioni, con il prelievo della vendita nel Paese del fornitore. Come detto, l’obiettivo dichiarato delle cessioni intra-UE è applicare l’IVA nello Stato in cui ha luogo il consumo finale del bene. Ma, al contempo, bisogna impedire agli operatori di poter falsare la concorrenza e, in tale prospettiva, servono dei criteri oggettivi a dimostrazione che, come rimarcato dalla Corte di Giustizia nella sentenza del 18 novembre 2010 resa nel procedimento C‑84/09, sussista “un nesso temporale e sostanziale tra la cessione del bene [...] e il trasporto dello stesso nonché una continuità nello svolgimento dell’operazione” (punto 33). E questo nesso va ricercato nella realtà economica e commerciale delle operazioni, tenendo conto degli accordi contrattuali con particolare riguardo alle “intenzioni dell’acquirente al momento dell’acquisto, sempreché siano suffragate da elementi oggettivi” [...]. Ciò si impone in misura ancor maggiore nel caso in cui l’acquirente ottenga il potere di disporre del bene [...] come un proprietario nello Stato membro di cessione e si faccia carico del suo trasporto nello Stato membro di destinazione” (punto 47). Sicché, in definitiva, ai fini dell’indagine sulle regole di territorialità applicabili alle cessioni intra-UE, spicca il punto di vista dell’acquirente e, in particolare, l’interesse predominante che l’ha portato a concludere l’operazione e senza il quale non avrebbe effettuato l’acquisto. Ora, nel caso di specie, non vi è dubbio che il cliente ungherese non abbia alcun ragionevole interesse a farsi consegnare i beni in Polonia ma, al contrario, lo avrebbe avuto solo qualora vi fosse stata la possibilità di farsi consegnare i beni nel proprio paese. Questo costituisce l’elemento da prendere in considerazione ai fini della qualificazione dell’operazione, al di là della (difficoltosa) traduzione del principio nella norma di legge.