Non è tenuto al versamento dell'Irap l'avvocato che ha solo a disposizione una stanza nello studio associato. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con l'ordinanza n. 5496 del 28 febbraio 2020. IL FATTO Il caso trae origine da una controversia concernente l'impugnazione del silenzio-rifiuto opposto dall'Amministrazione finanziaria all'istanza del contribuente di rimborso dell'Irap, versata per le annualità dal 2005 al 2008, per l'esercizio dell'attività di avvocato. In particolare la Ctr, confermando la decisione di primo grado, ha ritenuto che il professionista esercitasse la propria attività in un contesto che non poteva dirsi avulso di qualsiasi apporto produttivo. Il fatto che il contribuente fosse o meno associato era ininfluente, rilevando piuttosto la circostanza che in tale ipotesi era legittimo presumere che il ricorrente si avvantaggiasse dei relativi benefici organizzativi, aggiungendo alla propria capacità professionale quel quid pluris che fa scattare il presupposto impositivo dell'Irap. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione il professionista, ribadendo che negli anni in discussione non era "associato", ma aveva avuto a disposizione solamente una stanza in uno studio associato. LA DECISIONE DELLA CORTE DI CASSAZIONE La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso. Invero, la Suprema Corte ha già avuto modo di chiarire che «In tema di Irap, il professionista (nella specie, commercialista) il quale sia inserito in uno studio associato, sebbene svolga anche una distinta e separata attività professionale, diversa da quella espletata in forma associata, ha l'onere di dimostrare, al fine di sottrarsi all'applicazione dell'imposta, la mancanza di autonoma organizzazione, ossia di non fruire dei benefici organizzativi recati dalla sua adesione alla detta associazione che, proprio in ragione della sua forma collettiva, normalmente fa conseguire agli aderenti vantaggi organizzativi e incrementativi della ricchezza prodotta quali, ad esempio, le sostituzioni in attività - materiali e professionali - da parte di colleghi di studio, l'utilizzazione di una segreteria o di locali di lavoro comuni, la possibilità di conferenze e colloqui professionali o altre attività allargate, l'utilizzazione di servizi collettivi e quant'altro caratterizzi l'attività svolta in associazione professionale» (Cass. 15/01/2019, n. 766). Tuttavia, ad avviso degli Ermellini la Ctr aveva errato laddove, usando vaghe espressioni assertive, era giunta alla perentoria determinazione che il contribuente svolgesse l'attività di avvocato in forma associata, per inferirne l'esistenza del presupposto impositivo dell'Irap, per di più, senza minimamente soffermarsi sulle circostanze di fatto offerte dal professionista a dimostrazione della tesi contraria Ne consegue l'accoglimento del ricorso.