È «ritorsivo» il licenziamento intimato al ritorno da una lunga malattia se il "giustificato motivo oggettivo" addotto dal datore di lavoro si rivela infondato. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 23583 del 23 settembre 2019, bocciando il ricorso di una Srl, attiva nel settore dell'oreficeria, contro la decisione della Corte di appello di Firenze, che aveva disposto la reintegra ed il risarcimento del danno (pari alle retribuzioni perse) per un operaio specializzato. IL FATTO Il dipendente, assunto con mansioni di incisore pantografista, al rientro in servizio dopo una assenza di oltre sette mesi, aveva ricevuto una lettera di licenziamento motivata con la «scelta organizzativa» di chiudere il settore bigiotteria, argenteria e ottone per il calo di commesse. Per il giudice di secondo grado, tuttavia, sia la documentazione prodotta che la prova testimoniale, avevano dimostrato: l'inesistenza di un reparto di lavorazione dei materiali diversi dall'oro, la mancata adibizione esclusiva, il carattere marginale rispetto al complesso della produzione, la maggiore esperienza rispetto a quella del collega rimasto in servizio e, infine, la successiva assunzione di un altro dipendente. Per il Collegio dunque non si poteva parlare di «ristrutturazione aziendale» ma tutt'al più una «riduzione di mansioni» in un contesto economico peraltro positivo. In assenza di un giustificato motivo oggettivo, «doveva ravvisarsi la sussistenza del motivo ritorsivo del licenziamento espressivo della volontà di rappresaglia per la prolungata assenza del dipendente per malattia». L'intento ritorsivo poteva ritenersi dimostrato per presunzioni, e cioè: «non dalla sola circostanza della contiguità temporale tra rientro in servizio e intimazione del recesso, né come mero riflesso della infondatezza del motivo oggettivo, quanto piuttosto alla stregua di una valutazione complessiva della vicenda e in applicazione delle comuni regole di esperienza». LA DECISIONE DELLA CORTE DI CASSAZIONE Una lettura condivisa dalla Suprema corte che richiama la necessità che «l'intento ritorsivo datoriale abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà di recedere dal rapporto di lavoro». Dopodiché la Sezione lavoro opera un'utile ricostruzione dei vari passaggi da seguire. «Il giudice - si legge infatti nella decisione -, una volta riscontrato che il datore di lavoro non abbia assolto agli oneri su di lui gravanti e riguardanti la dimostrazione del giustificato motivo oggettivo, procede alla verifica delle allegazioni del lavoratore, il cui positivo riscontro giudiziale dà luogo all'applicazione della più ampia e massima tutela prevista». Quando dunque il lavoratore deduce la nullità del licenziamento per il suo carattere ritorsivo, «la verifica di fatti allegati richiede il previo accertamento della insussistenza della causale posta a fondamento del recesso, poiché la nullità per motivo illecito ex art. 1345 c.c. richiede che questo abbia carattere determinante e che il motivo addotto a sostegno del licenziamento sia solo formale e apparente». E, prosegue, nel caso in esame la sentenza ha applicato correttamente tali principi, avendo prima «escluso la sussistenza in concreto del giustificato motivo oggettivo» e poi «posto in relazione tra loro gli elementi indiziari acquisiti a giudizio». In una «valutazione globale», conclude la Cassazione, «la contiguità temporale tra rientro dalla malattia e intimazione del recesso, rendevano evidente il carattere pretestuoso del motivo addotto, portando a ritenere che il licenziamento, secondo una valutazione dell'"id quod plerumque accidit", non trovasse altra plausibile e ragionevole spiegazione se non la rappresaglia per la lunga malattia».