La qualifica di sindacalista non salva il dipendente dal licenziamento per le espressioni lesive della reputazione dell’azienda pubblicate sul suo profilo Facebook aperto. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 35922 depositata il 22 dicembre 2023. IL FATTO Nella contestazione disciplinare venivano appunto contestati i commenti presenti sul social media “gravemente lesivi dell’immagine e del prestigio dell’azienda nonché dell’onorabilità e dignità dei suoi responsabili”. Come per esempio: “Si informano tutti i gentili colleghi ... che, qualora si voglia aderire e iscriversi alla Filt Cgil perché trattati come stracci ...”; oppure: “Il vecchio oggi di prima mattina va a caccia dei suoi autisti che si sono iscritti al sindacato per fargli le solite minacce o false promesse”; e ancora: “Come mai questi hanno tutta questa fottuta paura che la gente si iscrive? Io personalmente l’unica risposta che mi riesco a dare è che hanno qualcosa da nascondere e non sono puliti”; “Sto vecchio di merda sempre a rompere i coglioni alla gente il sabato mattina, ma andasse a fare un giro in montagna ...”, e così via. Da qui l’intimazione del licenziamento da parte dell’azienda “sul rilievo che i fatti contestati e ritenuti addebitabili al dipendente, a titolo di dolo o di negligenza grave e ingiustificabile, travalicassero ogni limite di critica e di satira e impedissero la prosecuzione del rapporto di lavoro”, poi confermato nelle sedi di merito. Proposto ricorso, l’ex dipendente ha sostenuto di essere stato oggetto di “licenziamento discriminatorio per ragioni di appartenenza sindacale” e “per aver escluso la scriminante del diritto di critica”. LA DECISIONE DELLA CORTE DI CASSAZIONE Con riguardo a quest’ultimo punto la Corte afferma che al lavoratore è “garantito il diritto di critica, anche aspra, nei confronti del datore di lavoro ... ma ciò non consente di ledere sul piano morale l’immagine del proprio datore di lavoro con riferimento a fatti non oggettivamente certi e comprovati, poiché il principio della libertà di manifestazione del pensiero di cui all’art. 21 Cost. incontra i limiti posti dell’ordinamento a tutela dei diritti e delle libertà altrui e deve essere coordinato con altri interessi degni di pari tutela costituzionale”. Con riguardo invece al primo punto la Cassazione ricorda che i limiti al diritto di critica si applicano anche al lavoratore che sia rappresentante sindacale rilevando come il predetto agisca sotto una duplice veste, in quanto “quale lavoratore, è soggetto allo stesso vincolo di subordinazione degli altri dipendenti, (mentre) in relazione all’attività di sindacalista si pone su un piano paritetico con il datore di lavoro, con esclusione di qualsiasi vincolo di subordinazione, giacché detta attività, espressione di una libertà costituzionalmente garantita dall’art. 39 Cost., in quanto diretta alla tutela degli interessi collettivi”. La Corte di merito, conclude la decisione, si è attenuta ai principi di diritto appena richiamati e, con accertamento in fatto ha escluso che ricorressero i presupposti di un legittimo esercizio del diritto di critica per essere le espressioni usate dal lavoratore sindacalista, e pubblicate sul profilo Facebook accessibile a tutti gli utenti, “intrise di assai sgradevole volgarità”, prive di qualsiasi seria finalità divulgativa e finalizzate unicamente a ledere il decoro e la reputazione dell’azienda e del suo fondatore”. Tale accertamento “esclude ogni profilo di discriminatorietà della decisione di recesso”.