La rilevanza penale dell’illecito giustifica un incremento della sanzione rispetto al minimo edittale

Il cessionario è sanzionabile oltre il minimo edittale quando gli acquisti “in nero” sfociano nel penale. È quanto emerge dall’ordinanza n. 4927 del 20 febbraio 2019 della Sezione Tributaria della Corte di Cassazione. IL FATTO Nel caso specie, la Guardia di finanza, nel corso di una perquisizione disposta dalla Procura della Repubblica nei confronti della Società contribuente, ha sequestrato supporti informatici e altra documentazione, da cui si evinceva l’esistenza di una contabilità parallela. Il materiale acquisito è stato utilizzato per l’emissione di due separati pvc, sulla cui base sono stati emessi tre avvisi di accertamenti in materia di IVA con applicazione di sanzioni. I predetti avvisi sono stati impugnati fino in Cassazione, dove il verdetto dei giudici di secondo grado è stato annullato per difetto di motivazione. La causa è stata pertanto rinvita alla C.T.R. della Toscana, in diversa composizione, che si è di nuovo pronunciata in senso sfavorevole alla contribuente, con la conseguenza che quest’ultima ha instaurato un secondo giudizio davanti alla Corte di legittimità. LA DECISIONE DELLA CORTE DI CASSAZIONE Ebbene, per quanto è qui d’interesse, i Supremi giudici si sono espressi in relazione alla sanzione prevista per l’omessa IVA sugli acquisti (art. 41, D.P.R. n. 633/1972), anche in relazione alla sua commisurazione ai sensi dell’art. 7 del D.lgs. n. 472 del 1997; norma che al primo comma stabilisce: «Nella determinazione della sanzione si ha riguardo alla gravità della violazione desunta anche dalla condotta dell'agente, all'opera da lui svolta per l'eliminazione o l'attenuazione delle conseguenze, nonché alla sua personalità e alle condizioni economiche e sociali». Secondo la Società ricorrente, la C.T.R. avrebbe errato nell’affermare che la sanzione in concreto applicata dall’Ufficio, in misura superiore al minimo edittale, sarebbe giustificata dai “risvolti penali” della vicenda, e ciò perché la rilevanza penale della violazione – sempre a detta della ricorrente – non può essere fatta rientrare nei criteri indicati dall’art. 7 riportato sopra. La Corte di legittimità è stata di diverso avviso. Il Supremo Collegio ha affermato che l’articolo 7 del D.lgs. 472 del 1997 - pur non contemplando espressamente le inchieste penali fra i presupposti delle sanzioni più alte rispetto al minimo - va interpretato nel senso che «- nella scelta tra i due corni della sanzione edittale - deve farsi complessivamente riferimento ai parametri normativi a) della gravità della violazione, b) dell'opera successivamente svolta dall'agente per eliminare o attenuarne le conseguenze, c) della personalità dell'agente (da desumersi, ai sensi del comma 2 dello stesso art. 7, anche dai suoi precedenti in ambito fiscale) e, infine, d) dalle sue condizioni economico-sociali. Con particolare riferimento al criterio della gravità della violazione, che qui maggiormente interessa, la norma precisa che essa può essere desunta anche dalla condotta dell'agente. Insomma, il suddetto indice testuale specificato dalla norma (condotta dell'agente) viene individuato come parametro cui commisurare la gravità della violazioni che però può essere desunta anche da altro, come dimostrato dalla congiunzione utilizzata dal legislatore». Alla luce di quanto sopra la Suprema Corte ha considerato infondata la censura della ricorrente perché, come ritenuto correttamente dai giudici di appello, «la rilevanza penale della vicenda in esame giustifica un incremento della sanzione, rispetto al minimo edittale». I giudici evidenziano che «la astratta rilevanza penale di una violazione di norma tributaria implica già l’espressione di un disvalore normativo riguardo alla condotta tipica, certamente maggiore rispetto a quelle violazioni non sanzionate penalmente. Anche per tale verso, quindi, resta confermato che il riferimento alle implicazioni penali della vicenda sub iudice costituisce espressione di un giudizio sulla gravità della condotta, pienamente sussumibile nell’ambito del citato art. 7». Pertanto, per quanto riguarda la commisurazione della sanzione pecuniaria, il ricorso per cassazione della Società contribuente è risultato infondato.

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