È legittima la condanna in appello per dichiarazione fraudolenta, nonostante l’imputazione iniziale di dichiarazione infedele, se l’imputato ha fornito elementi in ordine alla configurazione di una differente condotta delittuosa. In casi del genere, infatti, non si verifica alcuna lesione al diritto di difesa, dal momento che l’interessato ha potuto interloquire su ogni aspetto della vicenda. A fornire questa precisazione è la Corte di Cassazione, terza sezione penale, con la sentenza n. 15500 del 9 aprile 2019. IL FATTO Il legale rappresentante di una società veniva condannato dal tribunale per il reato di dichiarazione infedele di cui all’articolo 4 del Dlgs 74/2000, perché non aveva indicato nella dichiarazione presentata elementi attivi per un importo superiore alla soglia. La Corte di appello, in parziale riforma della sentenza emessa dal tribunale, riqualificava il delitto contestato, affermando che questo integrasse la dichiarazione fraudolenta di cui all’articolo 3 del Dlgs 74/2000. L’imputato impugnava la decisione in Cassazione, lamentando tra i diversi motivi la violazione del Codice di procedura penale. In particolare, secondo il ricorrente, nonostante il giudice di secondo grado avesse ritenuto che il fatto commesso integrasse il reato di dichiarazione fraudolenta e non infedele, non aveva disposto la trasmissione degli atti al pubblico ministero dichiarando la nullità della sentenza del tribunale, ma aveva confermato la pena inflitta nel primo grado di giudizio. LA DECISIONE DELLA CORTE DI CASSAZIONE I giudici di legittimità hanno innanzitutto ricordato che, dopo le modifiche intervenute con il Dlgs 158/2015, per il reato di dichiarazione infedele (articolo 4 Dlgs 74/2000) occorre che i costi che hanno concorso all’evasione siano inesistenti e non più soltanto fittizi. La Suprema Corte ha, così, rilevato che proprio l’imputato aveva evidenziato già nelle proprie memorie in appello che, nel contesto del nuovo quadro normativo, le somme oggetto di contestazione, poiché erano state effettivamente pagate, dovevano essere considerate quali «operazioni fraudolente». Ed infatti, sulla base di ciò, il giudice territoriale aveva ritenuto che la condotta integrasse il reato di dichiarazione fraudolenta. La Cassazione ha così chiarito che, per l’indagine volta ad accertare la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, non è sufficiente il mero confronto letterale fra contestazione e sentenza, poiché la norma è volta alla tutela del diritto di difesa dell’imputato. In altre parole, quindi, il principio di correlazione risponde all’esigenza di evitare che l’imputato sia condannato per un fatto, rispetto al quale non abbia potuto difendersi (Sezioni Unite 16/1996, 36551/2010). Ne consegue, pertanto, che non è ravvisabile alcuna violazione nell’ipotesi in cui sia lo stesso imputato a precisare gli elementi di fatto sulla base dei quali poi il giudice è pervenuto alla diversa individuazione del reato. Nella specie, l’interessato come emergeva dagli atti era stato posto nella condizione di difendersi, potendo intervenire su ogni aspetto della vicenda. Così il giudice di appello aveva legittimamente deciso senza rinviare gli atti di nuovo al Pm.