La flat tax continua ad essere, da almeno un paio d’anni, un argomento da prima pagina dei quotidiani e a destare l’attenzione dei commentatori. Non ha importanza se verrà realizzata con la Manovra economica 2020 sulla quale si concentrerà il Governo già dal prossimo mese di settembre, o se sarà rinviata per esigenze di bilancio o per nuove elezioni politiche. Quello che conta è che una proposta siffatta di radicale trasformazione del sistema d’imposizione personale sul reddito sia presente nei programmi elettorali di uno degli azionisti di questo Governo e di quelli dei partiti che secondo le previsioni dei più accreditati istituti di ricerca potrebbero ottenere la maggioranza parlamentare alle prossime elezioni. È sufficiente questa condizione/probabilità per far sì che la flat tax sia presa sul serio e costituisca un argomento su cui continuare a riflettere e a interrogarsi, non solo per gli effetti che potrà avere sul sistema di riparto delle spese dello Stato tra i membri della collettività, ma anche per la sopravvivenza stessa dello stato sociale così come lo conosciamo. “L’Italia ha bisogno di uno shock fiscale forte”, ripete con una certa frequenza il ministro Salvini. È vero, ne avrebbe bisogno, perché una riduzione delle tasse anche sui salari, stipendi e pensioni (quella sul reddito di lavoro autonomo e d’impresa è già stata introdotta), lungi dal ridurre il cuneo fiscale inteso come onere per le imprese - a meno che non si pensi di dividere il beneficio riducendo parzialmente i suddetti compensi - si trasferirebbe, almeno in parte, sui consumi di beni e servizi. E le imprese hanno un disperato bisogno di questa nuova domanda, dopo che quella interna stagna da tempo e quella estera ha già manifestato segni di rallentamento. In questo senso dovrebbe essere intesa un’altra frase che sentiamo spesso ripetere, ossia che “tagliare le tasse è l’unico modo per aiutare le imprese”. Anche questa è vera, perché ridurre le tasse sul lavoro, per l’effetto indotto di cui sopra, aiuterebbe le imprese che hanno investito risorse nella ricerca e sviluppo di nuovi beni e servizi, così come nei miglioramenti di produttività ed efficienza, approfittando della miriade di incentivi, crediti d’imposta e agevolazioni fiscali che questo e i precedenti governi hanno introdotto nel sistema. E probabilmente aiuterebbe anche quelle imprese che si sono dimostrate poco o per nulla attente alle evoluzioni dei mercati e alle esigenze dei consumatori, offrendo loro una boccata di ossigeno (nella speranza che possa essere ben sfruttata). Come ottenere uno shock fiscale Ma attraverso quale strada si vorrebbe attivare questo shock fiscale? La Lega propone di avviare la seconda fase del progetto generale di flat tax - al 15% per tutti con deduzione unica fino a 3.000 euro - introducendo l’aliquota del 15% per i redditi fino a 30.000 euro per i single e fino a 50.000 euro per i nuclei familiari. Operazione che genererebbe un beneficio di 12-13 miliardi di euro per 40 milioni di contribuenti e 20 milioni di famiglie. Senza soffermarsi sulla solita e arcinota idea - per nulla dimostrata scientificamente ed empiricamente, viste anche le esperienze vissute da quei Paesi dell’est europeo che hanno introdotto la flat tax - secondo la quale questo tipo di imposizione personale si finanzierebbe in buona parte con l’emersione di redditi non dichiarati, la riduzione del tax rate al 15% dovrebbe trovare una copertura negli effetti positivi di cassa generati da una revisione delle spese fiscali (tax expenditures) e dall’abolizione del bonus di 80 euro introdotto dal governo Renzi o, quanto meno, da una sua alchimistica rimodulazione o parziale trasformazione in detrazione d’imposta e contribuzione. Oltreché da una ennesima spending review. Il tutto, bene inteso, al netto della copertura degli oltre 23 miliardi necessari a disattivare la clausola di salvaguardia IVA per il 2020. La flat tax è la soluzione? Ma davvero quello che produrrà una tale manovra sarà uno shock fiscale? Davvero 40 milioni di contribuenti vedranno il loro reddito netto incrementarsi per effetto di una riduzione delle tasse? Le domande sono lecite, perché a fronte di una apparentemente elevata riduzione delle aliquote nominali - meno 8 punti per l’attuale primo scaglione, meno 12 punti per il secondo e meno 23 per il terzo - la realtà sembra esprimere numeri e condizioni diverse. E questo al netto di ogni altra considerazione sull’attribuzione dei vantaggi di tale riduzione che risulterebbe essere massima per i contribuenti appartenenti ai due ultimi scaglioni. Ma questo, si sa, è un effetto strutturale di una imposta proporzionale, appositamente voluto dai suoi sostenitori. Se da un lato sarebbe doveroso non paragonare l’aliquota nominale flat proposta con le aliquote effettive che gravano sui contribuenti, perché la prima potrebbe essere influenzata dalla presenza di una no tax area e/o di una o più deduzioni (scelte tra quelle oggi in uso), dall’altro ciò diventa necessario dal momento che: a) il cambio di paradigma dell’imposizione viene “venduto” come vantaggioso per tutti, e b) che le suddette variabili sono ad oggi sconosciute. Ebbene, per i primi due scaglioni di reddito interessati dalla manovra (0-15mila e 15-28 mila), le aliquote medie effettive sono pari, rispettivamente, al 5,2% e al 14,4% e, quindi, sono inferiori all’aliquota del 15% flat. Per il terzo (28-55 mila), è superiore, pari al 21,4%, per cui in questa fascia, che conta 6,2 milioni di dichiaranti (il 15,5% del totale), si potrebbero generare dei vantaggi. Pochi, peraltro, visto il limite fissato a 30.000 euro. Non si capisce, invece, quale possa essere il vantaggio per 17,6 milioni di contribuenti che si trovano nel primo scaglione, il 44% del totale, mentre è quantomeno dubbia la dimensione del vantaggio per i 14,5 milioni che si collocano nel secondo, il 36%, per un totale dell’80%. E parliamo proprio di quella “classe media” che più è stata colpita dalla lunga crisi economica. Con una flat tax a regime, invece, il vantaggio sarebbe evidente per coloro che si trovano nel quarto e quinto scaglione di reddito, nei quali le aliquote medie sono pari, rispettivamente, al 27,4 e al 33,2%. Dal momento che si vorrebbero eliminare le detrazioni/deduzioni d’imposta, occorrerebbe ricordare che la maggior parte di esse sono destinate a sostenere contribuenti con redditi bassi e medio-bassi: infatti, il 25,5% delle spese fiscali è utilizzato dai contribuenti che rientrano nel primo scaglione di reddito, il 37% da quelli che rientrano nel secondo, il 22,2% da quelli che appartengono al terzo. Ai redditi medio-alti va il restante 15% (5% a favore del quarto scaglione e il 10% a favore del quinto). Se la riduzione dell’aliquota d’imposta viene finanziata dalla soppressione delle tax expenditures, ciò che si ottiene non è un abbassamento della pressione fiscale ma la sua invarianza, con un probabile effetto di rimescolamento dei vantaggi/svantaggi tra contribuenti che dichiarano redditi da bassi a medi. È come un gioco delle tre carte, insomma. La clausola di salvaguardia È per questa ragione che sarebbe prevista la c.d. clausola di salvaguardia che dovrebbe permettere ai contribuenti di confrontare l’onere impositivo derivante dall’applicazione dei due sistemi, quello flat e quello vigente progressivo, e poi di scegliere quello meno gravoso (o più conveniente). Ma quale è lo scopo di introdurre una riforma fiscale se l’effetto sulla gran parte dei contribuenti deve essere nullo? Se chi propone uno shock fiscale fosse realmente sicuro di ridurre le imposte non avrebbe alcun bisogno di introdurre una “clausola di salvaguardia”. Senza considerare che in luogo di un sistema di tassazione personale ne avremmo due. Ma la semplificazione, uno dei grandi obiettivi della flat tax, dov’è finita? Per non parlare della novità del “reddito famigliare” che sarebbe fissato a 50/55.000 euro. In questo caso l’effetto dirompentemente negativo sulla famiglia e sul mercato del lavoro sarebbe evidente. Se il reddito supera questa soglia si applicherebbe in toto il sistema progressivo generando un pesante salto d’imposta, tanto che “la somma delle imposte dovute dai singoli componenti della famiglia aumenterebbe molto e potrebbe facilmente aumentare più di quanto sia aumentato il reddito” (Le spese fiscali: cosa sono e come possono cambiare con l’introduzione della flat tax, OCPI, 2019). E questo potrebbe indurre taluni componenti della famiglia, in specie le donne che hanno un gap di remunerazione nei confronti degli uomini, a ridurre il loro impegno lavorativo, a non entrare o ad uscire dal mercato del lavoro, o a trasformare parte del loro reddito in “lavoro nero”. Esattamente l’effetto opposto a quello che sarebbe auspicabile. Ma anche la proposta del M5S non sembra affatto andare nella direzione di una maggiore equità del sistema. Il passaggio da 5 a 3 scaglioni (e livelli di imposta) - 23% fino a 28.000 euro, 37% da 28.000 a 100.000 e 42% oltre tale limite - benché accompagnato da un innalzamento della no tax area, oltre a riproporre pesanti salti d’imposta, potrebbe avere un senso solo qualora rappresentasse una tappa verso la realizzazione del sistema di flat tax generalizzato. Se fosse un punto di arrivo sarebbe altrettanto iniquo. Quali soluzioni alternative? Peccato che lo shock fiscale promesso sia solo una illusione. Peccato, perché il Paese ne avrebbe realmente bisogno e perché si potrebbe veramente ottenere se solo si modificasse l’impostazione di fondo e si introducessero misure alternative. Senza scendere nei particolari, le soluzioni alternative potrebbero concentrarsi, in una prima fase, sui seguenti punti: - riforma della curva della progressività: occorre accorciare l’estensione degli scaglioni di reddito fino a 75.000 euro e incrementarne il numero, sia entro tale limite sia oltre, con una riduzione delle aliquote sui redditi inferiori e un innalzamento progressivo sui redditi superiori allo stesso limite. Una alternativa migliore potrebbe essere l’introduzione di una progressività matematica, sul modello tedesco, per tutti, o fino agli stessi 75.000 e per scaglioni oltre tale livello di reddito; - revisione delle tax expenditures complessive: sarebbe fondamentale eliminare ingiustificati e distorsivi privilegi derivanti da talune esenzioni, imposizioni sostitutive etc.; incrementare quelle per la produzione del reddito e per i familiari a carico, e prevedere una applicazione decrescente (per quelle che oggi non lo sono) per i redditi superiori a 75.000 euro fino all’azzeramento una volta raggiunta una determinata soglia di reddito. L’85% delle spese fiscali si concentra nei primi tre scaglioni di reddito, il 5% nel quarto e il 10% nel quinto. Chi guadagna redditi elevati non ha bisogno di detrazioni per decidere se fare lavori di ristrutturazione in casa o cambiare la caldaia. In questa azione non troverebbe più giustificazione il bonus di 80 euro. Senza dimenticare che una parte delle spese fiscali potrebbe essere sostituita da un assegno familiare variabile in funzione del reddito e del numero/tipologia dei componenti la famiglia; - un discorso a parte meriterebbero i 7,7 miliardi di detrazioni non godute per incapienza dell’imposta, che potrebbero trasformarsi in voucher per l’acquisto di beni e servizi sociali per la persona e la famiglia; - reddito minimo esente: dovrebbe essere incrementato ed esteso anche ai lavoratori autonomi (professionisti e partite IVA), a fronte dell’eliminazione del regime appena introdotto di flat tax particolarmente privilegiato e fortemente iniquo e distorsivo.