In caso di contestazione di fatture soggettivamente inesistenti spetta all’Ufficio provare, anche attraverso presunzioni purchè gravi, precise e concordanti, non solo la fittizietà del fornitore, ma anche che il contribuente era consapevolmente partecipe della frode, ovvero che se ne sarebbe potuto rendere conto usando l’ordinaria diligenza. A fronte di dette contestazioni, inoltre, il giudice tributario deve valutare l’eventuale sentenza di assoluzione nel parallelo procedimento penale, anche se la stessa non ha efficacia di giudicato. Questi i principi stabiliti dalla Corte di Cassazione nell’ordinanza n. 33320 del 17 dicembre 2019. IL FATTO Ad una Srl veniva notificato un avviso di accertamento con il quale si contestavano fatture soggettivamente inesistenti. In sintesi alcuni fornitori risultavano completamente privi di struttura e pertanto considerati delle mere cartiere. La contribuente proponeva ricorso che veniva accolto dalla CTP, ma la decisione era ribaltata in appello. In particolare la CTR preliminarmente riteneva infondata l’eccezione di decadenza dal potere di accertamento per assenza del c.d. raddoppio dei termini, nel merito riteneva poi provato sia lo status di cartiera dei fornitori contestati, sia la consapevolezza della Srl di aver partecipato alla frode. Su tale ultimo punto i giudici hanno ritenuto sufficiente il fatto che la GdF avesse rinvenuto degli assegni emessi dalla contribuente in favore di uno dei soggetti coinvolti nel meccanismo fraudolento, senza che fosse stata fornita alcuna giustificazione al riguardo. La società impugnava la decisione d’appello con ricorso articolato in numerosi motivi di censura. LA DECISIONE DELLA CORTE DI CASSAZIONE La Suprema Corte ha accolto alcuni motivi del ricorso. I giudici hanno ritenuto non corretto l’operato della CTR in merito alla ripartizione dell’onere probatorio. Nella specie, incombe sull’Ufficio l’onere probatorio che deve sostanziarsi nella dimostrazione, anche presuntiva, che il contribuente abbia avuto consapevolezza di partecipare ad una frode ovvero se ne sarebbe dovuto rendere conto usando l’ordinaria diligenza. Nella sentenza la motivazione dei giudici di merito non appariva condivisibile. Infatti l’unico elemento posto a base della decisione non aveva i requisiti della gravità, precisone e concordanza e pertanto non era idoneo a giustificare l’inversione dell’onere della prova ponendola a carico della contribuente, la cui malafede andava dimostrata attraverso ulteriori circostanze. La CTR ha poi completamente omesso la valutazione dell’esito del parallelo procedimento penale, conclusosi con assoluzione “perché il fatto non sussiste”. Seppur una pronuncia penale di questo tipo non spieghi efficacia di giudicato nel giudizio tributario, il giudice la deve valutare come possibile fonte di prova e verificarne la rilevanza nel proprio ambito. Da ultimo, nonostante si trattasse di fatture soggettivamente inesistenti, l’Ufficio aveva contestato anche la deducibilità dei relativi costi, senza considerare che, a differenza che per il passato (ante DL n. 16/12), ciò è possibile solo se si tratti di costi in contrasto con i principi di inerenza, competenza, certezza ovvero siano direttamente utilizzati per il compimento di un delitto non colposo. La CTR ha avallato tale l’operato dell’Amministrazione senza nemmeno valutare la sussistenza di tali requisiti che giustificassero l’indeducibilità contestata: in assenza degli stessi, infatti, per operazioni come quelle in esame i costi sono deducibili per il solo fatto di essere stati sostenuti.