Negli ultimi anni le regole fissate dal Jobs Act in materia di licenziamenti e di contratti a termine sono stati, più volte, oggetto di profonda rivisitazione: per quel che riguarda i primi è sufficiente richiamare gli specifici interventi della Consulta e della Corte di Cassazione che, con “limature” di vario tipo, hanno rimesso il giudice al centro del dibattimento fornendogli anche un potere discrezionale che il Legislatore aveva in gran parte tolto e allargando le ipotesi di reintegra nel posto di lavoro che erano, sostanzialmente e prevalentemente, confinate nelle ipotesi previste dall’art. 2 (e, in parte, 3) del D.L.vo n. 23/2015. Per quel che riguarda i contratti a tempo determinato il Legislatore è passato, dalla versione originaria che prevedeva la “acausalità” più completa per tutta la durata massima fissata in 36 mesi, alla introduzione di rigide causali legali dopo i primi 12 mesi di rapporto con una gestione delle proroghe e dei rinnovi molto impervia (D.L. n. 87/2018) e, successivamente (D.L. n. 48/2023), alla loro sostituzione con condizioni fissate dalla contrattazione collettiva, anche aziendale, sottoscritta delle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale, trascorsi i primi 12 mesi, fermo restando il tetto massimo fissato a 24 mesi, con possibilità, fino al prossimo 31 dicembre, per le parti di definire le condizioni, in mancanza di accordi collettivi. Contratto a termine illegittimo e risarcimento danni: le novità L’Esecutivo con l’art. 11 del D.L. 16 settembre 2024, n. 131, al fine di “stoppare” una procedura di infrazione dal parte della Commissione Europea, ha rivisitato, completamente, l’art. 28 del D.L.vo n. 81/2015 che disciplina il rimborso forfettario in caso di contratto a termine illegittimo ove il giudice abbia disposto la ricostituzione del rapporto a tempo indeterminato. Quest’ultimo stabilisce al comma 2 che in caso di conversione a tempo indeterminato di un contratto a termine illegittimo debba essere corrisposta al lavoratore per il periodo di “non lavoro” una indennità risarcitoria onnicomprensiva il cui importo è compreso tra le 2,5 e le 12 mensilità calcolate sull’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto. Tale indennità “ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore, ivi comprese le conseguenze retributive e contributive”, per tutto il periodo compreso tra la risoluzione del precedente rapporto e la sentenza del giudice. Il successivo comma 3 dispone che in presenza di contratti collettivi, anche aziendali, che prevedono, sulla base di apposite graduatorie, l’assunzione a tempo indeterminato, il tetto massimo di 12 mensilità è dimezzato a 6. Su questa norma è intervenuto il Governo in quanto gli organismi comunitari hanno ritenuto che il tetto massimo di 12 mensilità riconosciuto in via forfettaria non avesse un carattere “dissuasivo” per eventuali comportamenti illegittimi e che, quindi, non tutelerebbe adeguatamente il dipendente. La nuova norma, abroga il comma 3 e riscrive il comma 2 non riconoscendo più il limite massimo di 12 mensilità, con la conseguenza che il lavoratore, dimostrando il “maggior danno subito”, può invocare un ristoro maggiore, cosa che potrebbe riportare il tutto ad una situazione in cui il nostro Paese si è già trovato allorquando, prima del 2015, si allungavano i tempi per la causa giudiziale (presentando il ricorso allo scadere dei 180 giorni previsti) e si usava ogni mezzo per ritardare la decisione giudiziale, complice, ovviamente, il gran numero di ricorsi giacenti presso la sezione lavoro del Tribunale. La nuova disposizione, infatti, dopo il primo periodo prevede che “resta ferma la possibilità per il giudice di stabilire l’indennità in misura superiore se il lavoratore dimostra di aver subito un maggior danno”. La soluzione adottata dal Legislatore del 2015 cercava di non far cadere il costo completamente sul datore di lavoro, proprio perché si era riscontrato che gran parte dei ritardi nelle decisioni non dipendevano dalla volontà dello stesso e si era giunti ad una soluzione che partiva da alcuni principi: a) il rimborso di natura forfettaria era stato riconosciuto dalla Consulta come costituzionale alla luce della sentenza n. 303/2011; b) l’importo tra un minimo di 2,5 mensilità ed un massimo di 12 era stato ritenuto congruo e, comunque, dissuasivo rispetto a situazioni processuali dilatorie finalizzate a differire il momento della decisione giudiziale. Quando il contratto a tempo determinato è illegittimo Il rischio che un contratto a tempo determinato sia dichiarato illegittimo è più frequente di quel che si pensi. E’ sufficiente enucleare alcune delle ipotesi più ricorrenti: a) numero di proroghe oltre la disposizione normativa che ne prevede 4 in ventiquattro mesi; b) superamento del limite dei 12 mesi senza l’indicazione di una specifica condizione; c) rinnovo del contratto senza attendere il decorso dello “stop and go” (10 giorni di calendario se il precedente rapporto ha avuto una durata fino a 6 mesi, 20 se superiore); d) adibizione del lavoratore a mansioni diverse da quelle indicate nella lettera di assunzione; e) superamento della durata massima prevista dalla norma; f) mancata specificazione del richiamo alla causale contrattuale o a quella individuale, in mancanza di pattuizione collettiva, possibile fino al prossimo 31 dicembre. Occorre evitare, infatti, una mera ripetizione della clausola o il riferimento a generiche esigenze di natura tecnico-organizzativa o produttiva, declinando le ragioni specifiche che postulano il ricorso al contratto a termine; g) stipula del contratto a termine in una delle ipotesi vietate dall’art. 20 del D.L.vo n. 81/2015: sostituzione di lavoratori in sciopero, assunzione in unità produttive nelle quali nei 6 mesi antecedenti si è proceduto ad un licenziamento collettivo per riduzione di personale che ha interessato lavoratori adibiti alle stesse mansioni alle quali si riferisce il contratto a tempo determinato, fatta salva l’assunzione per sostituzione di lavoratori assenti, di soggetti in mobilità o che abbia una durata iniziale non superiore a 3 mesi, assunzione presso unità produttive ove è in corso un trattamento integrativo salariale, fatto salvo il caso di lavoratore con mansioni diverse e assunzione in azienda che non ha proceduto alla valutazione dei rischi in applicazione della normativa di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro. I prossimi passi del decreto Salva Infrazioni Ora, il testo passa all’esame del Parlamento che, potrebbe, a mio avviso, introdurre alcuni cambiamenti normativi finalizzati alla accelerazione di tali giudizi in un’ottica nella quale è lo stesso PNRR a chiedere che i processi diventino più celeri (creazione di una sezione speciale per tali controversie, riduzione dei tempi per il ricorso - da 180 giorni ai 120 ordinariamente previsti -, ecc.).