Consulenti del Lavoro: il divieto di licenziamento per pandemia affossa l’economia. Ecco gli strumenti alternativi

I Consulenti del Lavoro prendono in esame diversi strumenti alternativi ai licenziamenti: dai contratti di solidarietà a quelli di prossimità, dal part-time allo smart working

Fondazione Studi Consulenti del Lavoro – Approfondimento 23 luglio 2020


Nell’intricata e cospicua produzione normativa legata all’emergenza Covid-19, uno dei temi più discussi è quello del divieto dei licenziamenti per ragioni economiche. Una disposizione che di fatto sospende la potestà decisionale e organizzativa del datore di lavoro, limitando fortemente la libertà d’impresa. Dopo un iniziale periodo di divieto fissato in sessanta giorni, la norma è stata estesa fino al 17 agosto 2020, perdendo così i connotati di straordinarietà ed estemporaneità e avvalorando la diffusa tesi di incompatibilità con gli articoli 41 e 38 della Costituzione. Alla luce di questa premessa, l’approfondimento del 23 luglio 2020 della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro prende in esame diversi strumenti alternativi ai licenziamenti – dai contratti di solidarietà a quelli di prossimità, dal part-time allo smart working – distinguendo le aziende che possono ancora ricorrere agli ammortizzatori sociali emergenziali da quelle che, invece, non hanno più questa possibilità avendo già esaurito il periodo massimo di settimane previsto dalla legge.

L’ambito operativo del divieto

Il divieto di “licenziamento economico” è da riferire:

a) alle procedure di cui agli articoli 4, 5 e 24, della legge 23 luglio 1991, n. 223;
b) ai licenziamenti per giustificato motivo oggettivo aisensi dell’articolo 3, della legge 15 luglio 1966, n. 604.

Le procedure di cui alla lettera a), per esplicita previsione del primo comma dell’art. 46 del D.L. n. 18/2020, sono sospese se avviate successivamente alla data del 23 febbraio, mentre i procedimenti di tentativo preventivo di conciliazione per i licenziamenti individuali, ex art. 7 della L. n. 604/66 sono sospesi soltanto se iniziati successivamente all’entrata in vigore della norma.

Ogni licenziamento sottratto alla disciplina delle norme appena richiamate, così come riferite dall’art. 46 del “Cura Italia”, non è soggetto al divieto in discorso. Pertanto, non soggiacciono al divieto di licenziamento ex art. 46:

1) i licenziamenti per ragioni economiche che si sono perfezionati prima dell’entrata in vigore della norma (17 marzo 2020) e quelli che implicano la risoluzione del rapporto successivamente allo spirare del divieto (17 agosto 2020);
2) i licenziamenti disciplinari;
3) i licenziamenti dei collaboratori domestici, ai quali non si applicano affatto le norme relative alla giustificazione tipizzata dei motivi di licenziamento, ma possono essere licenziati ad nutum, in virtù della prevalenza dell’afflato fiduciario che il legislatore ha inteso riconoscere, per la particolarità del rapporto, prestato presso l’abitazione del datore, con tutte le implicazioni che ne conseguono, e non nell’ambito di una organizzazione d’impresa;
4) il licenziamento economico dei dirigenti, anche questo di norma sottratto all’egida dell’art. 3 della L. n. 604/66, sebbene non di rado ricompresi nell’ambito di una procedura di licenziamento collettivo;
5) il licenziamento per mancato superamento del periodo di prova. Si tratta a rigor di logica pur sempre di un motivo astrattamente oggettivo, perché non necessariamente il mancato superamento della prova può essere ritenuto in termini di addebitabilità e/o diligenza del prestatore di lavoro subordinato. Tuttavia, in punto di diritto, la fattispecie è disciplinata dall’art. 2096 c.c. e perciò, nonostante le interpretazioni talvolta restrittive rilasciate dalla giurisprudenza in ordine alla ampiezza delle modalità di esercizio della libera recedibilità, quello per il mancato superamento della prova spirato il periodo contrattualmente pattuito, rimane pur sempre un recesso sottratto alla necessità di una sua giustificazione secondo i criteri della legge sui licenziamenti individuali;
6) considerazioni simili possono valere anche per il licenziamento disposto per superamento del periodo di comporto. In questi casi infatti, pur essendo comune farvi riferimento quale licenziamento per ragioni oggettive sui generis, in effetti si tratta di una ragione di risoluzione del rapporto di lavoro i cui princìpi regolatori sono fissati ancora una volta dal codice civile (art. 2110), e le sue modalità di esercizio concreto demandate alla contrattazione collettiva. Tale che, in ogni caso, non può dirsi, anche questa fattispecie, soggetta all’art. 3 della L. n. 604/66;
7) il licenziamento, rectius, la risoluzione, del rapporto con l’apprendista per il completamento del periodo formativo. Anche in questo caso di tratta di una ipotesi speciale di possibile risoluzione prevista dalla legge (art. 42 del D.Lgs. n. 81/2015) che sfugge alle regole della giustificazione ai sensi dell’art. 3 della L. n. 604/66.

Al contrario, secondo la posizione espressa dall’Ispettorato Nazionale del Lavoro con la nota del 24 giugno 2020, prot. n. 298, anche il licenziamento per inidoneità sopravvenuta alla mansione deve intendersi soggetto al divieto dell’art. 46 del D.L. n. 18/2020, considerato che “deve essere ascritto alla fattispecie del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, atteso che l’inidoneità sopravvenuta alla mansione impone al datore di lavoro la verifica in ordine alla possibilità di ricollocare il lavoratore in attività diverse riconducibili a mansioni equivalenti o inferiori, anche attraverso un adeguamento dell’organizzazione aziendale”.

La scelta dell’INL si fonda sulla riflessione che “l’obbligo di repechage rende (…) la fattispecie in esame del tutto assimilabile alle altre ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, atteso che la legittimità della procedura di licenziamento non può prescindere dalla verifica in ordine alla impossibilità di una ricollocazione in mansioni compatibili con l’inidoneità sopravvenuta”. Una sorta, cioè, di ragione economica “di risulta”, sebbene non inquadrabile in questo senso all’origine.

La crisi delle aziende

La crisi economica conseguente alla emergenza epidemiologica Covid-19 comporta per le aziende la necessità di gestire i rapporti di lavoro anche in termini di “esuberi”, tenendo, però, presente il divieto dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo.

L’approfondimento prende in esame diversi strumenti alternativi ai licenziamenti, distinguendo le aziende che abbiano ancora la possibilità di ricorrere agli ammortizzatori sociali rispetto a quelle che, invece, non abbiano più tale possibilità avendo già esaurito il periodo massimo di settimane previsto dalla legge.

Aziende che non hanno esaurito l’integrazione salariale “Covid-19”

Come noto con l’articolo 68 del decreto “Rilancio”, n. 34/2020, è stato modificato l’articolo 19 decreto legge n. 18/2020. Inoltre, l’articolo 1 del D.L. n. 52/2020 ha esteso il periodo di trattamento ordinario di integrazione salariale e assegno ordinario richiedibile dai datori di lavoro operanti su tutto il territorio nazionale, che hanno dovuto interrompere o ridurre l’attività produttiva per eventi riconducibili all’emergenza epidemiologica da Covid-19.

Sul punto l’Inps ha emanato la circolare n. 84 del 10 luglio 2020, con la quale sono state analizzate le modifiche legislative. In particolare, l’Istituto rileva che, ai sensi del novellato articolo 19, comma 1, i datori di lavoro che nell’anno 2020 sospendono o riducono l’attività lavorativa per eventi riconducibili all’emergenza epidemiologica da Covid-19, possono presentare domanda di concessione del trattamento ordinario di integrazione salariale o di accesso all’assegno ordinario con causale “COVID19 nazionale”, per una durata di 9 settimane per periodi decorrenti dal 23 febbraio 2020 al 31 agosto 2020, incrementate di ulteriori 5 settimane nel medesimo periodo per i soli datori di lavoro che abbiano interamente fruito il periodo precedentemente concesso di 9 settimane. Quest’ultima asserzione risulta determinare una vera e proprio condizione di procedibilità rispetto alla menzionata ulteriore richiesta di 5 settimane.

L’Inps, poi, ribadisce, secondo il nuovo dettato normativo, che l’articolo 1 del decreto legge n. 52/2020, in deroga a quanto disposto dal citato articolo 19, ha, previsto la possibilità di usufruire di ulteriori 4 settimane per periodi anche antecedenti al 1° settembre 2020, per i soli datori di lavoro che abbiano interamente fruito delle quattordici settimane precedentemente concesse. Anche in tale ipotesi si individua una condizione di procedibilità rispetto alla ulteriore domanda.

Ai fini della verifica del c.d. “periodo effettivamente fruito”, è necessario che:

– il datore di lavoro, richiedente la cassa integrazione ordinaria, presenti una domanda per completare la fruizione delle settimane già autorizzate, allegando alla domanda stessa un file excel compilato secondo le istruzioni diramate con il citato messaggio Inps n. 2101 del 21 maggio 2020 e allegato allo stesso;
– ugualmente, le aziende che richiedono l’assegno ordinario dovranno allegare alla domanda medesima un file excel, da cui risulti la situazione in merito alla citata fruizione.

Alla luce del ridisegnato quadro normativo deriva quanto segue:

– la durata massima di integrazione salariale Covid-19 è pari a 18 settimane, considerando cumulativamente tutti i periodi riconosciuti (massimo 14 ai sensi del decreto legge n. 18/2020 e massimo 4 ai sensi del n. 52/2020);
– per i datori di lavoro che hanno unità produttive o lavoratori residenti o domiciliati nei comuni delle c.d. zone rosse, la durata massima complessiva è determinata in 31 settimane.

Aziende che hanno esaurito l’integrazione salariale “Covid-19”

Nella menzionata circolare n. 84 del 2020, l’Inps analizza la situazione di quelle aziende che abbiano esaurito le 18 settimane di sospensione o riduzione dell’attività lavorativa con causale “COVID-19 nazionale”. Al riguardo, l’Istituto comunica che tali imprese possono eventualmente fare ricorso alle prestazioni a sostegno del reddito previste dalla normativa generale, qualora sussista disponibilità finanziaria nelle relative gestioni di appartenenza. Sul punto, viene richiamata la possibilità di fare ricorso alla cassa integrazione ordinaria secondo quanto disposto dal decreto ministeriale n. 95442/2016.

Quest’ultimo prevede che l’integrazione salariale ordinaria è concessa dalla sede Inps territorialmente competente per le seguenti causali:

a) situazioni aziendali dovute a eventi transitori e non imputabili all’impresa o ai dipendenti, incluse le intemperie stagionali;
b) situazioni temporanee di mercato.

Inoltre, l’art. 1 del D.M. n. 95442/2016 citato richiede, quali requisiti essenziali ai fini della concessione del trattamento:

– la transitorietà della situazione aziendale e la temporaneità della situazione di mercato, che sussistono quando è prevedibile, al momento della presentazione della domanda di CIGO, che l’impresa riprenda la normale attività lavorativa (comma 2);
– la non imputabilità all’impresa o ai lavoratori della situazione aziendale, che consiste nella involontarietà e nella non riconducibilità ad imperizia o negligenza delle parti (comma 3).

L’Inps, in considerazione della grave situazione economica creatasi in conseguenza dell’epidemia, fa presente che è possibile accedere alle integrazioni salariali ordinarie per mancanza di materie prime/componenti o per mancanza di lavoro/commesse, anche quando il determinarsi di dette causali sia riconducibile ai perduranti effetti dell’emergenza epidemiologica. Inoltre, l’Istituto precisa che, qualora l’azienda evidenzi il nesso di causalità tra l’emergenza sanitaria e la causale invocata, la valutazione istruttoria non deve contemplare la verifica della sussistenza dei requisiti della transitorietà dell’evento e della non imputabilità dello stesso al datore di lavoro e ai lavoratori.

I limiti di fruizione secondo le regole che disciplinano l’integrazione salariale ordinaria sono i seguenti:

– 52 settimane nel biennio mobile ai sensi dell’articolo 12, commi 1 e 3, del D.Lgs. n. 148/2015;
– 1/3 delle ore lavorabili di cui all’articolo 12, comma 5, del medesimo decreto;
– durata massima complessiva dei trattamenti di 24 mesi nel quinquennio mobile (30 mesi per le imprese del settore edile e lapideo) prevista dall’articolo 4, commi 1 e 2, del D.Lgs. n. 148/2015;
– il requisito dell’anzianità di effettivo lavoro di 90 giorni di cui all’articolo 1, comma 2, del D.Lgs. n. 148/2015;
– l’obbligo di versamento della contribuzione addizionale di cui all’articolo 5 del medesimo decreto legislativo n. 148/2015 (esclusi gli eventi oggettivamente non evitabili, c.d. “EONE”);
– adempimenti relativi alla comunicazione sindacale previsti all’articolo 14 del D.Lgs. n. 148/2015.

L’Inps, nella citata circolare n. 84/2020, segnala che saranno accolte le domande di integrazione salariale per le quali la sospensione o la riduzione dell’attività lavorativa avviene per effetto dell’ordine della autorità/ente pubblico, circostanza quest’ultima che costituisce apposita causale rientrante nel novero dei c.d. “EONE”. Per quanto concerne l’assegno ordinario, garantito dai Fondi di solidarietà bilaterale e dal FIS, l’Istituto rimanda a quanto previsto dagli artt. 26 e 35 del D.Lgs. n. 148/15, richiamando le disposizioni previste dai singoli Regolamenti.

Contratto di solidarietà

Il contratto di solidarietà rappresenta a favore delle aziende rientranti nell’ambito di applicazione della CIGS una valida alternativa al licenziamento collettivo e/o individuale. Esso viene regolamentato dal richiamato D.Lgs. n. 148/15 e dal D.M. 13 gennaio 2016, n. 94033. Ai sensi del comma 1 dell’art. 21 del primo, l’intervento straordinario di integrazione salariale può essere richiesto quando la sospensione o la riduzione dell’attività lavorativa sia determinata da una delle seguenti causali:

a) riorganizzazione aziendale;
b) crisi aziendale, ad esclusione, a decorrere dal 1° gennaio 2016, dei casi di cessazione dell’attività produttiva dell’azienda o di un ramo di essa;
c) contratto di solidarietà.

Quest’ultimo può essere stipulato dall’impresa attraverso contratti collettivi aziendali, ai sensi dell’articolo 513 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, che stabiliscono una riduzione dell’orario di lavoro al fine di evitare, in tutto o in parte, la riduzione o la dichiarazione di esubero del personale anche attraverso un suo più razionale impiego.

L’art. 21, comma 5, D.Lgs. 148/2015 pone due limiti da rispettare:

– la riduzione media oraria non può essere superiore al 60 per cento dell’orario giornaliero, settimanale o mensile dei lavoratori interessati al contratto di solidarietà;
– per ciascun lavoratore, la percentuale di riduzione complessiva dell’orario di lavoro non può essere superiore al 70 per cento nell’arco dell’intero periodo per il quale il contratto di solidarietà è stipulato.

Giova, ulteriormente, sottolineare che secondo l’art. 3 del D.M. 13 gennaio 2016, n. 94033:

– il contratto di solidarietà non si applica nei casi di fine lavoro e fine fase lavorativa nei cantieri edili (a tale riguardo, nel caso di imprese rientranti nel settore edile, devono essere indicati nel suddetto contratto i nominativi dei lavoratori inseriti nella struttura permanente);
– il ricorso al contratto di solidarietà non è ammesso per i rapporti di lavoro a tempo determinato, instaurati al fine di soddisfare le esigenze di attività produttive soggette a fenomeni di natura stagionale;
– per i dipendenti con rapporto di lavoro part-time è ammissibile l’applicazione dell’ulteriore riduzione di orario, qualora sia dimostrato il carattere strutturale del part-time nella preesistente organizzazione del lavoro.

Ai sensi dell’art. 22, comma 3, D.Lgs. n. 148/15, per la causale di contratto di solidarietà di cui all’art. 21, comma 1, lettera c), e relativamente a ciascuna unità produttiva, il trattamento straordinario di integrazione salariale può avere una durata massima di 24 mesi, anche continuativi, in un quinquennio mobile. Va, tuttavia, tenuto presente, che, in base al comma 5 dell’art. 22 testé citato, ai fini del calcolo della durata massima complessiva di cui all’articolo 4, comma 14, la durata dei trattamenti per la causale di contratto di solidarietà viene computata nella misura della metà per la parte non eccedente i 24 mesi e per intero per la parte eccedente.

Part-time

La trasformazione del contratto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale può costituire un utile strumento per evitare il licenziamento del lavoratore nelle situazioni di crisi economica ed anche per abbassare il costo del lavoro, laddove non si possano utilizzare ammortizzatori sociali. Si ricorda, tuttavia, che, ai sensi dell’art. 8 del D.Lgs. 81/2015, il rifiuto del lavoratore di trasformare il proprio rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a tempo parziale, o viceversa, non costituisce giustificato motivo di licenziamento.

Soltanto, su accordo delle parti risultante da atto scritto è ammessa la trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a tempo parziale.

Ciò viene confermato dalla giurisprudenza, secondo la quale il datore di lavoro non può unilateralmente ridurre, sospendere l’attività lavorativa e, specularmente, rifiutare di corrispondere la retribuzione, perché se lo fa incorre in un inadempimento contrattuale, previsto in generale dalla disciplina delle obbligazioni corrispettive, secondo cui il rifiuto di eseguire la prestazione può essere opposto da un contraente (nella specie il datore di lavoro) soltanto se l’altra parte (il lavoratore) ometta di effettuare la prestazione dovuta, ma non già quando questa sia impedita dalla volontà datoriale unilaterale, salva la prova a carico del medesimo della impossibilità sopravvenuta.

Datore di lavoro senza ammortizzatori sociali e senza lavoro

Il datore di lavoro, avendo esaurito gli ammortizzatori sociali messi a sua disposizione sia dalla normativa ordinaria sia da quella emergenziale, potrebbe ugualmente trovarsi in una situazione di carenza di lavoro. Attesa, dunque, la vigenza del divieto di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, la gestione degli eventuali esuberi potrebbe essere gravosa.

Secondo la giurisprudenza, in base agli artt. 1218 e 1256 c.c., la sospensione unilaterale del rapporto da parte del datore di lavoro è giustificata ed esonera il medesimo datore dall’obbligazione retributiva soltanto quando non sia imputabile a fatto dello stesso, non sia prevedibile ed evitabile e non sia riferibile a carenze di programmazione o di organizzazione aziendale ovvero a contingenti difficoltà di mercato.

La legittimità della sospensione va verificata in riferimento all’allegata situazione di temporanea impossibilità della prestazione lavorativa: solo ricorrendo il duplice profilo dell’impossibilità della prestazione lavorativa svolta dal lavoratore e dell’impossibilità di ogni altra prestazione lavorativa in mansioni equivalenti, è giustificato il rifiuto del datore di lavoro di riceverla. Inoltre, va sottolineato che il dipendente “sospeso” non è tenuto a provare d’aver messo a disposizione del datore di lavoro le sue energie lavorative nel periodo in contestazione, in quanto, per il solo fatto della sospensione unilaterale del rapporto di lavoro e quindi del rifiuto datoriale di ricevere la prestazione, che realizza un’ipotesi di mora credendi, il prestatore, a meno che non sopravvengano circostanze incompatibili con la volontà di protrarre il rapporto suddetto, conserva il diritto alla prestazione retributiva.

Seguendo tale linea di pensiero, si potrebbe ritenere che la cessazione e/o la sospensione dell’attività aziendale in conseguenza di una crisi economica, causata dalla epidemia Covid-19, potrebbe giustificare, stante il divieto di licenziamento in essere e ricorrendone i presupposti di cui sopra, un motivo per sospendere gli obblighi contrattuali nell’ambito del rapporto di lavoro.
Ma la percorribilità di tale soluzione presupporrebbe pur sempre, e necessariamente, l’avallo delle organizzazioni sindacali.

Smart working per garantire il distanziamento sociale

Il lavoro agile viene disciplinato dalla legge n. 81/2017 quale modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato, stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa. La prestazione lavorativa viene eseguita, in parte all’interno di locali aziendali e in parte all’esterno senza una postazione fissa, entro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva. Le ragioni dell’istituto in esame sono individuate nello scopo di incrementare la competitività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro.

Nella fase post-emergenza Covid-19, inoltre, il lavoro agile può costituire un utile strumento per mantenere il distanziamento sociale.

Il Governo, al fine di una migliore gestione dell’emergenza epidemiologica, ha semplificato l’accesso alla disciplina di cui alla Legge n. 81/2017. In particolare, il legislatore all’art. 90 del decreto legge 19 maggio 2020, n. 34, ha disposto, ribadendo quanto già previsto nei diversi DPCM che si sono susseguiti dallo scorso mese di marzo, che sino al termine della crisi emergenziale e comunque non oltre il 31 dicembre 2020, la modalità di lavoro agile disciplinata dagli articoli da 18 a 23 della legge n. 81/2017 può essere applicata dai datori di lavoro privati a ogni rapporto di lavoro subordinato, nel rispetto dei principi dettati dalle menzionate disposizioni, anche in assenza degli accordi individuali ivi previsti.

Gli obblighi di informativa di cui all’articolo 22 della medesima legge n. 81 del 2017, peraltro, sono assolti in via telematica anche ricorrendo alla documentazione resa disponibile sul sito dell’Inail. Pertanto, dal 31 luglio 2020, salvo un’ulteriore previsione estensiva di tale termine, cesserà la fase emergenziale da Covid-19, con una conseguente cessazione delle disposizioni di accesso agevolato all’istituto in commento, tra le quali si individua la possibilità di attivarlo senza un accordo scritto. Al riguardo, giova ricordare che, in base alla regola ordinaria (art. 19 della citata legge n. 81/2017), l’accordo relativo alla modalità di lavoro agile è stipulato per iscritto ai fini della regolarità amministrativa e della prova, e disciplina l’esecuzione della prestazione lavorativa svolta all’esterno dei locali aziendali, anche con riguardo alle forme di esercizio del potere direttivo del datore di lavoro ed agli strumenti utilizzati dal lavoratore. L’accordo individua altresì i tempi di riposo del lavoratore nonché le misure tecniche e organizzative necessarie per assicurare la disconnessione del lavoratore dalle strumentazioni tecnologiche di lavoro.

Orbene, in virtù della previsione normativa citata si evince che non possa essere inteso come lavoro agile, ai fini della disciplina della legge n. 81/2017, la prestazione che sia svolta interamente in locali extra-aziendali. Il lavoro agile emergenziale, invece, è caratterizzato dal fatto che i lavoratori prestano, molto spesso, la loro attività solo da casa.

Per quanto concerne la sicurezza sul lavoro, secondo l’art. 22 della legge n. 81/2017, Il datore di lavoro garantisce la salute e la sicurezza del lavoratore che svolge la prestazione in modalità di lavoro agile e a tal fine consegna al lavoratore e al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, con cadenza almeno annuale, un’informativa scritta nella quale sono individuati i rischi generali e i rischi specifici connessi alla particolare modalità di esecuzione del rapporto di lavoro. Si ricorda, al riguardo, che il legislatore in riferimento al lavoro agile emergenziale ha previsto, con l’art. 90 del D.L. n. 34/2020, che gli obblighi di informativa in materia di sicurezza sul lavoro, possano essere assolti in via telematica anche ricorrendo alla documentazione resa disponibile sul sito dell’Istituto nazionale assicurazione infortuni sul lavoro.

Contratto di prossimità

Il contratto di prossimità può fornire ai datori di lavoro un valido strumento per gestire la situazione di crisi economica successiva alla fase emergenziale Covid-19. L’art. 8, D.L. 138/2011, convertito con la legge n. 148/2011, prevede infatti che “I contratti collettivi di lavoro sottoscritti a livello aziendale o territoriale da associazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale ovvero dalle loro rappresentanze sindacali operanti in azienda ai sensi della normativa di legge e degli accordi interconfederali vigenti, compreso l’accordo interconfederale del 28 giugno 2011, possono realizzare specifiche intese con efficacia nei confronti di tutti i lavoratori interessati a condizione di essere sottoscritte sulla base di un criterio maggioritario relativo alle predette rappresentanze sindacali”. Le specifiche intese menzionate possono essere finalizzate anche alla gestione delle crisi aziendali e occupazionali. Orbene, nell’ambito di realizzazione della finalità appena citata, il contratto di prossimità potrà riguardare le seguenti materie:

a) impianti audiovisivi e introduzione di nuove tecnologie;
b) mansioni del lavoratore, classificazione e inquadramento del personale;
c) contratti a termine, contratti a orario ridotto, modulato o flessibile, regime della solidarietà negli appalti e casi di ricorso alla somministrazione di lavoro;
d) disciplina dell’orario di lavoro;
e) modalità di assunzione e disciplina del rapporto di lavoro (comprese le collaborazioni coordinate e continuative a progetto e le partite IVA), trasformazione e conversione dei contratti di lavoro e conseguenze del recesso dal rapporto di lavoro (fatta eccezione per il licenziamento discriminatorio e il licenziamento della lavoratrice in concomitanza del matrimonio).

Quindi, il contratto di prossimità, ai fini della sua legittimità richiede il rispetto:

– della rappresentatività, sul piano nazionale o territoriale, delle parti stipulanti;
– del c.d. vincolo di scopo, che nel caso di specie va individuato nella gestione delle crisi aziendali e occupazionali.

La crisi conseguente alla emergenza epidemiologica Covid-19 ha messo in risalto la necessità che le parti sociali intervengano in modo più pregnante nel tessuto produttivo delle piccole e medie aziende, promuovendo una contrattazione collettiva di secondo livello, anche di prossimità, in grado di far fronte a tutte le emergenze gestionali dei rapporti di lavoro durante la pandemia.

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