Misure cautelari per i componenti di articolati sodalizi criminali, interdizioni all’esercizio di impresa nei confronti di imprenditori e all’esercizio della professione nei confronti di diversi commercialisti: la diffusa monetizzazione dei falsi crediti d’imposta ceduti ai sensi dell’art. 121 del decreto Rilancio (D.L. n. 34/2020) rischia di diventare la più grave frode tributaria della storia repubblicana e, a breve, anche di trasformarsi in una questione sociale alquanto problematica. Non potrà, infatti, sfuggire che in presenza della mancata sussistenza dei requisiti che danno diritto alla detrazione d’imposta che ha consentito la possibilità di esercitare le opzioni che l’hanno “trasformata” in credito di imposta compensabile dal fornitore o dal cessionario, oppure da questi cedibile a terzi con possibilità di cessioni ulteriori, l’Agenzia delle Entrate proverà a recuperare l’importo non spettante perseguendo i frodatori, ma anche le controparti private delle false fatture, vale a dire i soggetti beneficiari della detrazione “cartolare”. Lavoratori, pensionati, condomini e contribuenti vari che, a quel punto, non potranno che invocare l’inconsapevolezza della frode altrui, quantomeno per evitare enormi profili sanzionatori, fermo restando che la ripresa dell’agevolazione tributaria non spettante sarà comunque contestata al beneficiario dell’operazione, vale a dire il committente. Al momento, la cronaca giudiziaria ha dato notizia solo di frodi connesse a operazioni di carta, ma le operazioni contestabili come oggettivamente inesistenti investono anche operazioni reali, ma falsamente sovrafatturate, per le quali dovrà ora essere valutata, caso per caso, la consapevolezza del committente privato di essere parte, o meno, di una frode. Facciamo un esempio Si immagini un bonus facciate condominiale, fatturato (e monetizzato) a corrispettivi triplicati rispetto a quelli di mercato. Qualora tale dilatazione fraudolenta del prezzo fosse stata consapevolmente concordata tra amministratori di condominio eticamente discutibili, imprenditori edili con pochi scrupoli e condòmini maliziosi, ben felici di non pagare sostanzialmente quasi nulla in cambio della complicità in un’operazione falsamente sovrafatturata, non vi è alcun dubbio che in tali casi l’Amministrazione finanziaria andrà a perseguire anche i condomini “furbetti”. Sotto il profilo giuridico, ai sensi dei commi 5 e 6 dell’art. 121 del D.L. n. 34/2020, qualora sia accertata la mancata sussistenza, anche parziale, dei requisiti che danno diritto alla detrazione/agevolazione con riguardo alla quale sono state esercitate le opzioni di cessione del credito di imposta, l’Agenzia delle Entrate provvede al recupero dell’importo non spettante nei confronti dei soggetti beneficiari della detrazione e nel descritto caso, per evidente concorso nella violazione, si determinerà la responsabilità in solido anche del fornitore che ha applicato lo sconto in fattura. Tuttavia, un’impresa orientata alla frode è spesso anche una scatola vuota, mentre invece l’appartamento condominiale rimarrebbe in bella vista per poter essere aggredito dalle eventuali procedure esecutive erariali. Come provare l’inconsapevolezza della frode? In molti casi, quindi, i committenti privati potrebbero faticare a provare una condotta contraria alla realizzazione della violazione, poiché tale consapevolezza può integrarsi anche nel caso in cui non fosse rinvenibile una diligenza minima richiesta per evitare di poter essere ritenuto partecipante a condotte fraudolente quale, ad esempio, un voto contrario manifestato nei verbali delle assemblee condominiali ove, a fronte di deliberazioni palesemente incompatibili con la ragionevolezza economica di un intervento edilizio, si fosse manifestato un chiaro dissenso. Solo così si potrà (forse) uscire indenni dalla scure fiscale e, comunque, solo in questo modo ci si potrà almeno provare a difendere dall’illecito con qualche ragione davanti ad un giudice tributario.