Bancarotta fraudolenta documentale: prova a maglie larghe

Ai fini della configurabilità del reato di bancarotta fraudolenta documentale, il dolo specifico di procurarsi un ingiusto profitto in danno dei creditori presuppone che la condotta dell'agente sia diretta a realizzare la dissimulazione delle attività sociali e può essere desunto non solo dalla procurata indisponibilità delle scritture, ma anche da elementi diversi, purché univocamente dimostrativi della finalità di cagionare pregiudizio alle ragioni dei creditori. In altri termini, la prova dell'intenzionalità del dolo può trovare conferma anche in altri elementi sintomatici, che evidenzino la effettiva "ratio" ispiratrice del comportamento, quali, ad esempio, la evidenza di obbligazioni inadempiute, l'esistenza di titoli esecutivi e l'andamento dell'impresa, indicatori tali da fondare l'interesse acchè la mancanza delle scritture contabili possa procurare vantaggio all'imprenditore e danno ai creditori. Lo ha ribadito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 17152 del 18 aprile 2019. IL FATTO All'amministratore unico di una società e al suo liquidatore alla data del fallimento veniva contestata la sottrazione o distruzione della documentazione contabile, mai consegnata al curatore, al quale era pervenuta solo copia informale di talune scritture, consegnategli dal liquidatore dopo averle acquisite dalla figlia del commercialista - deceduto nel 2011 - che aveva tenuto la contabilità della fallita. Sia in primo che in secondo grado veniva confermata la responsabilità penale degli imputati. In particolare, la Corte territoriale riteneva accertato come la società non avesse mai depositato i bilanci, tanto da essere cancellata dal registro delle imprese; come alcuna scrittura contabile fosse stata messa a disposizione della curatela, a parte talune fatture relative agli anni 2005-2008, consegnate dal liquidatore, ravvisando, alla luce delle sottese vicende societarie, gli elementi costitutivi del delitto contestato. Avverso tale decisione proponevano ricorso per cassazione i due imputati. LA DECISIONE DELLA CORTE DI CASSAZIONE La Corte di Cassazione ha confermato la penale responsabilità dei due imputati. Sul punto, premette la Suprema Corte come «in tema di reati fallimentari, la bancarotta fraudolenta documentale di cui all'art. 216, comma 1, n. 2 prevede due fattispecie alternative, quella di sottrazione o distruzione dei libri e delle altre scritture contabili, che richiede il dolo specifico, e quella di tenuta della contabilità in modo da rendere impossibile la ricostruzione del movimento degli affari e del patrimonio della fallita che richiede il dolo generico». In particolare, l'occultamento delle scritture contabili - che consiste nella fisica sottrazione delle stesse alla disponibilità degli organi fallimentari - per la cui sussistenza è necessario il dolo specifico di recare pregiudizio ai creditori, costituisce una fattispecie autonoma ed alternativa - in seno all'art. 216, comma primo, lett. b), L. fall. - rispetto alla fraudolenta tenuta delle scritture, in quanto quest'ultima integra un'ipotesi di reato a dolo generico, che presuppone l'accertamento condotto su libri contabili effettivamente rinvenuti ed esaminati dai predetti organi (Sez. 5, n. 18634 del 01/02/2017). Di guisa che, mentre per la configurazione delle ipotesi di reato di sottrazione, distruzione o falsificazione di libri e scritture contabili previste dall'articolo 216, primo comma n. 2 prima parte, L. fall. è necessario il dolo specifico, consistente nello scopo di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizio ai creditori (Sez. 5, n. 17084 del 09/12/2014), il reato previsto dall'art. 216, comma primo n. 2, della legge fallimentare richiede il dolo generico, costituito dalla consapevolezza nell'agente che la inattendibilità delle scritture contabili possa rendere impossibile o ostacolare la ricostruzione delle vicende del patrimonio, non essendo, per contro, necessaria la specifica volontà di impedire quella ricostruzione (Sez. 5, n. 5264 del 2013; n. 24328 del 2005). In riferimento agli indici rivelatori del dolo, va rilevato come ai fini della configurabilità del reato di bancarotta fraudolenta documentale, il dolo specifico di procurarsi un ingiusto profitto in danno dei creditori presuppone che la condotta dell'agente sia diretta a realizzare la dissimulazione delle attività sociali e può essere desunto non solo dalla procurata indisponibilità delle scritture, ma anche da elementi diversi, purché univocamente dimostrativi della finalità di cagionare pregiudizio alle ragioni dei creditori. In altri termini, in tema di bancarotta fraudolenta documentale ai sensi dell'art. 216 n. 2 prima parte L. fall., la prova dell'intenzionalità del dolo esige il raggiungimento della certezza che la volontà dell'imputato sia stata orientata proprio a procurare il vantaggio patrimoniale o il danno ingiusto e tale certezza non può essere ricavata esclusivamente dal rilievo di un comportamento "non iure" osservato dall'agente, ma deve trovare conferma anche in altri elementi sintomatici, che evidenzino la effettiva "ratio" ispiratrice del comportamento, quali, ad esempio, la evidenza di obbligazioni inadempiute, l'esistenza di titoli esecutivi e l'andamento dell'impresa, indicatori tali da fondare l'interesse acchè la mancanza delle scritture contabili possa procurare vantaggio all'imprenditore e danno ai creditori. Invero il dolo del reato ha una finalizzazione specifica nella causazione di un danno o nel conseguimento, in altro modo, di un profitto e la prova di esso oltre a non discendere automaticamente dalla mera inosservanza di tenuta delle scritture obbligatorie, non si sostanzia neppure, in modo automatico, nella dimostrazione della consapevolezza della illegittimità dell'omissione, occorrendo in ogni caso la dimostrazione del "quid pluris" della finalizzazione specifica. Nel caso in esame, dalla sentenza impugnata risulta come l'affermazione di responsabilità degli imputati - nelle rispettive qualità di amministratore e di liquidatore della società fallita - sia stata fondata sulla accertata intenzionalità della condotta di omessa tenuta della contabilità, mai messa a disposizione degli organi della curatela, in un contesto di opacità delle vicende patrimoniali, puntualmente indicate. Di guisa che siffatta consapevole omissione, in presenza di concreti elementi sintomatici di un'attività d'impresa dissimulata nella sua effettività, di operazioni oscure e di una rilevante esposizione debitoria nei confronti dell'Erario, appare idonea a delineare l'elemento soggettivo del reato in termini di finalizzazione della condotta a precludere l'accertamento della situazione patrimoniale e finanziaria, in danno dei creditori. La sentenza impugnata valorizza, altresì, al riguardo la posizione del liquidatore della società, sia in riferimento ad operazioni non contabilizzate ed alla dichiarata riscossione di un credito relative alla fase liquidatoria, che alla emissione di fatture relative ad operazioni non effettivamente eseguite, riferibili alla medesima epoca. Di guisa che la valutazione di responsabilità appare rispondente al principio per cui la responsabilità del liquidatore deriva non solo dall'art. 223 L. fall. ma anche dall'art. 2489 cod. civ., che rinvia alle norme in tema di responsabilità degli amministratori e, quindi, anche all'art. 2392 c.c., il quale fissa un principio di ordine generale - per il quale l'amministratore deve vigilare sulla gestione ed impedire il compimento di atti pregiudizievoli, oltre che attenuarne le conseguenze dannose - di guisa che sussiste anche per i liquidatori una posizione di garanzia del bene giuridico penalmente tutelato, con conseguente ineludibile responsabilità, ex art. 40 cpv. cod. pen., ove i detti obblighi siano disattesi; inoltre i liquidatori hanno l'obbligo di ricevere in consegna i libri sociali (art. 2487 bis, comma terzo, cod. civ.) e pertanto non può ritenersi esente da responsabilità il liquidatore che non riceve i libri contabili e che omette ogni controllo sulla loro esistenza e sulla loro regolare tenuta.

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