La sospensione facoltativa del dipendente pubblico sottoposto a procedimento penale è priva di titolo qualora all'esito del procedimento penale l'ente datore di lavoro non attivi il procedimento disciplinare. Il dipendente assolto, poi, non ha alcun onere di attivarsi per la tempestiva ripresa del procedimento disciplinare comunicando all'amministrazione l'esito del processo a suo carico. Questo è quanto precisato dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 7657 del 19 marzo 2019, in cui altresì si afferma che nel caso in cui il procedimento disciplinare non sia riattivato, o nel caso in cui non sia irrogata alcuna sanzione, il dipendente ha diritto a ottenere le retribuzioni non percepite per tutto il periodo di sospensione. IL FATTO Protagonista della vicenda è un dipendente pubblico della Regione Campania il quale, a metà degli anni '90, veniva indagato e processato per diversi reati, alcuni dei quali venivano dichiarati estinti per prescrizione nel 1999 dal Tribunale di Napoli, mentre per altro titolo di reato nel 2003 giungeva una sentenza di assoluzione dalla Corte di cassazione. Nelle more del procedimento penale la Giunta regionale decideva di sospendere il dipendente dal servizio, in attesa di conoscere l'esito della vicenda, senza però mai aprire il procedimento disciplinare a suo carico. Così dopo la sentenza di assoluzione per l'ultimo reato contestatogli, il lavoratore chiedeva la riammissione in servizio e la restitutio in integrum, ovvero la differenza tra la retribuzione a esso di norma spettante e l'assegno alimentare a lui corrisposto dall'ente durante il periodo di sospensione cautelare. L'Amministrazione negava però la richiesta economica, in quanto il dipendente non aveva informato tempestivamente il suo datore di lavoro del proscioglimento per prescrizione che avrebbe di per sé fatto cessare la sospensione dal servizio. Dopo i primi due gradi di giudizio che negavano la richiesta economica a causa della «inerzia del lavoratore», la questione arriva in Cassazione dove il dipendente sottolinea che se inerzia vi è stata, è sicuramente quella della stessa Amministrazione, che dimenticava di attivarsi nel riavviare il procedimento disciplinare, essendo d'altra parte già informata dell'esito del procedimento penale dall'autorità giudiziaria. LA DECISIONE DELLA CORTE DI CASSAZIONE Tale difesa coglie nel segno e porta la Suprema corte ad annullare il verdetto di merito precisando che non sussiste alcun obbligo di collaborazione o dovere di comunicazione a carico del dipendente sottoposto a processo penale e sospeso dal servizio. I giudici di legittimità sul punto evidenziano poi il «carattere della provvisorietà e della rivedibilità» della sospensione cautelare, quale misura cautelare e interinale, la quale può sfociare in sanzione disciplinare o al contrario venire caducata negli effetti all'esito del procedimento disciplinare. Tale sanzione cautelare, inoltre quando è adottata, discrezionalmente, in pendenza di procedimento penale, mira ad evitare che «la permanenza in servizio del dipendente inquisito possa pregiudicare l'immagine e il prestigio dell'amministrazione». Se poi il procedimento disciplinare non si riattivi dopo l'assoluzione o si concluda favorevolmente al dipendente, prosegue il Collegio, a costui spetta il diritto alla restitutio in integrum. Quindi, la sospensione cautelare irrogata dall'ente al dipendente non fa venir meno l'obbligazione retributiva, ma semplicemente la sospende e solo quando il procedimento si concluda in senso sfavorevole al lavoratore con la sanzione del licenziamento «il diritto alla retribuzione viene definitivamente meno, in quanto gli effetti della sanzione retroagiscono al momento dell'adozione della misura cautelare». In caso di esito favorevole, invece, «il rapporto riprende il suo corso dal momento in cui è stato sospeso, con obbligo per il datore di lavoro di corrispondere le retribuzione arretrate».