Dal 12 marzo 2016, per effetto dell’entrata in vigore del Decreto Ministeriale del 15 dicembre 2015, attuativo del Decreto Legislativo 151/2015, le dimissioni volontarie e la risoluzione consensuale si effettuano, obbligatoriamente e a pena di nullità, in modalità telematica. Il lavoratore che intende cessare il suo rapporto di lavoro per motivi personali o in accordo con il datore di lavoro può procedere, autonomamente, all’invio telematico attraverso il portale clic lavoro, utilizzando le proprie credenziali e l’accesso come cittadino o attraverso la “app” messa a disposizione dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, accedendo con credenziali Spid. In alternativa, il lavoratore potrà avvalersi di un soggetto abilitato all’inoltro della pratica, patronati, organizzazioni sindacali, commissioni di certificazione e, per effetto dell’entrata in vigore del D. Lgs. 185/2016, potrà recarsi anche presso un Consulente del Lavoro o le sedi territoriali dell’Ispettorato nazionale del lavoro. Restano fuori dal campo di applicazione della normativa: il lavoro domestico; i casi di risoluzione a seguito di conciliazione stragiudiziale; le ipotesi di convalida presso l’ITL previste dall’art. 55 comma 4 del D.Lgs. 151/2001, relativa ai genitori lavoratori; i rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni ai sensi del Decreto Legislativo n.185 del 24 settembre 2016. La norma, pensata per debellare il fenomeno delle dimissioni in bianco, presenta delle criticità, segnalate sin dalla sua entrata in vigore, che ad oggi restano irrisolte. La carenza della norma riguarda le ipotesi per cui un lavoratore, che abbia espresso la sua volontà ad interrompere un rapporto di lavoro, anche se manifestata verbalmente o per iscritto, ma che successivamente non ne abbia concretamente dato seguito con la procedura telematica, deve, necessariamente essere licenziato, con tutte le conseguenze collegate: pagamento del ticket di licenziamento a carico del datore di lavoro; pagamento della Naspi, in favore del lavoratore, a carico dell’INPS. Per una carenza di attuazione della procedura si innesca quindi, da anni, un meccanismo a catena: il lavoratore dipendente, lasciando semplicemente decantare la situazione si ritrova con un licenziamento, grazie al quale può beneficiare dell’indennità a sostegno del reddito. Di contro, l’azienda subisce un danno economico inevitabile, stante l’attuale normativa, così come le casse dello Stato, che sopportano la condotta del lavoratore e la conseguente erogazione di una prestazione assistenziale, di cui, lo stesso, non avrebbe diritto. A risolvere finalmente la situazione potrebbe intervenire il disegno di legge lavoro, DL 48/2023, che all’articolo 26 del decreto legislativo 14 settembre 2015 n. 151, dopo il comma 7, inserisce il seguente comma: “7-bis. In caso di assenza ingiustificata protratta oltre il termine previsto dal contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro o, in mancanza di previsione contrattuale, superiore a cinque giorni, il rapporto si intende risolto per volontà del lavoratore e non si applica la disciplina di cui al presente articolo”. Se questa previsione dovesse essere confermata, dopo quasi sette anni dall’entrata in vigore della disposizione, si potrebbe ripristinare una questione di diritto che ha fatto subire, negli anni, il versamento obbligatorio del Ticket di licenziamento ai danni delle aziende italiane, in occasione di dimissioni fraudolente. È bene ricordare che, ad oggi, il pagamento del contributo di licenziamento a carico del datore di lavoro è pari al 41 per cento del massimale mensile di Naspi. Considerato che con la circolare numero 14 del 3 febbraio 2023 l'INPS ha comunicato l'importo massimo mensile della NASpI per l'anno 2023, che aumenta dai 1.360,77 euro per il 2022 ai 1.470,99 euro per il 2023, l’attuale importo del ticket è pari a 603,10 euro per ogni annualità, fino ad un tetto massimo di 1809,32 euro per rapporti di durata pari o superiore a 36 mesi. La quota mensile da prendere in considerazione, qualora l'anzianità sia inferiore all'anno, è pari a 50,26 euro. Non proprio una questione di poco conto che potrebbe essere finalmente risolta dopo quasi sette anni dalla sua entrata in vigore.