Il rapporto di lavoro instaurato con contratto di apprendistato professionalizzante conferisce alla formazione erogata al giovane lavoratore la medesima dignità che ordinariamente è riconosciuta alla retribuzione posta a carico del datore di lavoro. L’apprendistato è una fattispecie di contratto connotato da una causa mista in quanto prevedente a fronte della prestazione di lavoro l’obbligo datoriale di corrispondere una retribuzione e di fornire un addestramento finalizzato all’acquisizione di una specifica qualifica. La predisposizione e la piena realizzazione del progetto formativo costituiscono presupposto legittimante per il ricorso a questa tipologia contrattuale al punto che il legislatore ha stabilito un obbligo reciproco di prosecuzione del rapporto di lavoro fino al termine del periodo formativo. Con la sentenza n. 6704 del 13 marzo 2024, la Corte di Cassazione ha altresì affermato che “deve conclusivamente ritenersi, come in altri casi in cui il requisito della forma scritta del contratto va inteso in senso non strutturale ma formale, avuto riguardo alla finalità di protezione di una determinata parte del contratto stesso, che tale requisito possa credersi rispettato, a pena di nullità ancorché non prevista espressamente, solo ove il contratto di apprendistato sia redatto per iscritto anche circa il piano formativo individuale”. Eppure, se da un lato il datore di lavoro che licenzia l’apprendista prima del termine fissato per il raggiungimento della qualifica rischia la conversione del rapporto e il recupero della contribuzione piena a proprio carico, dall’altro lato il lavoratore dimissionario non è tecnicamente sanzionabile. Ciò nonostante, la formazione erogata spesso impone dei costi all’azienda, in termini di tempo, risorse e spese vive utili alla erogazione dei percorsi di apprendimento anche on the job. La rilevanza della formazione nel contratto La sentenza della Corte di Cassazione n. 6704 del 13 marzo 2024, che espressamente ha concluso per la nullità del contratto di apprendistato sfornito del piano formativo individuale stipulato per iscritto, è l’ultima di una serie di recenti pronunce - di merito e di legittimità - che sembrano aver ormai chiarito con rilevante dose di certezza i contorni dell’istituto in parola. La Suprema Corte ha chiarito che tale atto deve essere contestuale oltre che parte integrante del contratto di apprendistato: “ostando ad una diversa soluzione sia il dato testuale dell’art. 49 D.Lgs. 276/2003, che non sembra contemplare siffatta possibilità, sia la considerazione che l’elemento formativo qualifica la causa stessa del contratto di apprendistato professionalizzante e ciò rende particolarmente stringente la necessità che la volontà negoziale del lavoratore, nell’accedere al tipo contrattuale in questione, si formi sulla base della piena consapevolezza del percorso formativo proposto e della sua idoneità a consentire l’acquisizione della qualifica alla quale l’apprendistato e finalizzato; in concorrente profilo è da rilevare che la soluzione accolta è quella maggiormente idonea a prevenire abusi della parte datoriale nella concreta configurazione del percorso formativo, una volta che il piano formativo individuale risulti cristallizzato nel documento contrattuale e non in un documento esterno al contratto” (Cass. n. 10826/2023). Recesso anticipato dell’apprendista L’ apprendista che rassegna le proprie dimissioni volontarie antecedentemente al periodo minimo di durata del rapporto di lavoro di fatto, pur nel rispetto del termine di preavviso, viola il preciso impegno a non cessare il proprio rapporto di lavoro entro il termine del periodo formativo (se non per giusta causa) assunto in fase di assunzione. Su questo presupposto si basa la sentenza pronunciata dal Tribunale di Roma (sentenza n. 1646 del 9 febbraio 2024) che ha statuito la legittimità delle pretese aziendali di vedersi risarcire “una somma pari alla retribuzione corrisposta per ogni giornata di formazione erogata fino al momento del recesso”, stante una clausola appositamente pattuita nel contratto di apprendistato professionalizzante. L’apprendista è stato condannato alla restituzione di oltre 9.000 euro per retribuzioni versate relativamente ai giorni di formazione e nessun rilievo ha assunto la reclamata natura vessatoria della clausola di stabilità apposta al contratto. L'azienda aveva citato in giudizio il proprio ex dipendente per chiedere il rimborso delle somme relative ai 125 giorni di formazione, a titolo di recupero delle spese sostenute dalla società per l'erogazione, nei confronti del lavoratore, delle giornate di formazione professionale erogate. Nel contratto, infatti, era previsto che durante il periodo formativo le parti avrebbero potuto recedere dal contratto solo per giusta causa o giustificato motivo, fermo restando, in quest'ultimo caso, il rispetto dei termini di preavviso. Il giudice del lavoro, nella fattispecie, ha richiamato il principio di legittimità secondo cui "in materia contrattuale, le caparre, le clausole penali ed altre simili, con le quali le parti abbiano determinato in via convenzionale anticipata la misura del ristoro economico dovuto all'altra in caso di recesso o inadempimento, non avendo natura vessatoria, non rientrano tra quelle di cui all'art. 1341 c.c. e non necessitano, pertanto, di specifica approvazione" (Cassazione n. 18550/2021). Criteri di legittimità del patto di stabilità Il patto di stabilità è stipulato tra datore di lavoro e lavoratore al fine di vincolare il lavoratore a restare in azienda per un determinato periodo di tempo. Al di fuori della formazione obbligatoria e contrattuale, per le quali l’adempimento formativo deriva da un obbligo di legge o dal contratto collettivo, per un datore di lavoro che investe molto sulla formazione, è ammissibile l’esigenza di recuperare e ammortizzare i costi legati alla loro formazione da un punto di vista organizzativo. A tal fine questo tipo di clausola stabilisce che il rapporto di lavoro a tempo indeterminato avrà una durata minima durante la quale le parti non potranno recedere (salvo l’ipotesi della giusta causa). La legittimità di queste clausole con riferimento ai rapporti di lavoro è confermata a condizione che: - vincolino in egual misura anche il potere di recesso datoriale (entrambe le parti per la durata concordata non possono recedere dal rapporto); - vincolino solo il lavoratore ma rinvengano un corrispettivo nella natura della prestazione o in particolari investimenti economici e/o formativi del datore di lavoro; - il corrispettivo sia definito in denaro o nella formazione finanziata dal proprio datore di lavoro. La giurisprudenza ha di fatto fissato i seguenti criteri di legittimità della clausola, a tal fine occorre: - che l’impegno assunto dal lavoratore sia proporzionato agli oneri sostenuti dal datore di lavoro per la formazione; - sia fissata in modo chiaro e trasparente la data prima della quale il lavoratore non può recedere, salvo il caso di giusta causa di dimissioni (2119 c.c.); - che sia stabilito l’obbligo del lavoratore, in caso di recesso anticipato, di corrispondere al datore di lavoro, a titolo di risarcimento, una somma corrispondente al costo sostenuto (e documentabile) per la formazione, salvo il maggior danno. Come costantemente affermato dalla giurisprudenza di legittimità e di merito, dunque, il patto di stabilità deve ritenersi legittimo quando da parte dell'imprenditore sia stato sostenuto un reale costo finalizzato alla formazione del lavoratore per poter beneficiare per un periodo di tempo minimo ritenuto congruo, del bagaglio di conoscenze acquisito dal lavoratore.