In sede di determinazione del reddito di un professionista sulla base degli accertamenti sui conti correnti, in ottemperanza all’orientamento della Corte costituzionale, occorre sommare gli importi avendo riguardo alla provenienza e alla natura; inoltre, è del tutto arbitrario ritenere che i prelevamenti di cospicue somme dal conto corrente siano sinonimo di reddito occulto. A ribadire questo principio è la Corte di Cassazione nella sentenza n. 22905 del 21 ottobre 2020. IL FATTO L’Agenzia delle Entrate notificava ad un professionista degli avvisi di accertamento per recuperare a tassazione le maggiori imposte evase. L’Ufficio, infatti, all’esito di una verifica fiscale condotta sul conto corrente del contribuente, rilevava dei maggiori redditi ed un maggior volume d’affari anche sulla base dei prelevamenti bancari. I provvedimenti erano immediatamente impugnati innanzi alle Commissioni tributarie competenti, che, però, accoglievano solamente in parte le doglianze disponendo una riduzione del dovuto. I giudici di merito non tenevano conto del fatto che, il conto corrente oggetto della verifica era ad uso promiscuo, cioè anche ad uso personale, nel quale confluivano somme non collegate all’attività lavorativa. Avverso la suddetta sentenza, la difesa del contribuente proponeva ricorso in Cassazione. LA DECISIONE DELLA CORTE DI CASSAZIONE La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso presentato dal contribuente. I giudici di legittimità, dopo aver richiamato la pronuncia della Corte costituzionale (sent. 228/2014) nella quale è stato evidenziato che i prelevamenti non possono essere considerati equivalenti ai compensi per i professionisti e quindi indicativi di un maggior reddito occulto, hanno asserito che il computo del maggior reddito deve essere effettuato tenendo presente la natura dei vari importi ed i singoli periodi di imposta. Nel caso in esame, infatti, sul conto corrente del contribuente venivano accreditati gli importi derivanti dall’attività lavorativa e parimenti anche altre somme, fra le quali spiccava quella donata a titolo di liberalità da genitori. Una parte del predetto importo veniva poi prelevato dalla contribuente ma, conclude la Corte, è del tutto arbitrario ipotizzare che i prelevamenti ipoteticamente ingiustificati da un lavoratore autonomo siano destinati ad un investimento nella propria attività professionale e, che come tali siano a loro volta produttivi di reddito. Secondo i giudici di merito, invece, l’elevato importo donato risultava incompatibile con lo stato economico dei genitori. Di conseguenza non poteva considerarsi una forma di liberalità, ma sinonimo di proventi occulti, anche frutto di un reinvestimento nella propria attività lavorativa. Di contrario avviso la Cassazione e da qui l’accoglimento del ricorso.